Ripensare l’umano al tempo delle intelligenze artificiali.
“La tecnologia non è cattiva. Se sapete che cosa volete nella vita, la tecnologia può aiutarvi a ottenerlo. Ma se non sapete che cosa volete nella vita, sarà fin troppo facile per la tecnologia dare forma alle vostre intenzioni al posto vostro e prendere il controllo della vostra vita.” — Yuval Noah @Harari, 21 Lessons for the 21st Century (2018)
L’intelligenza artificiale ci obbliga a tornare sulla domanda più antica di tutte: chi è l’essere umano?
Questa domanda ritorna ogni volta che un nuovo modello linguistico scrive poesie migliori delle nostre, che una rete neurale diagnostica un tumore con più precisione di un medico, o che un avatar generativo intrattiene milioni di persone online. Ma cosa resta del “noi”, quando ogni nostra facoltà viene emulata, accelerata, superata?
La questione non è più se l’AI possa sostituire l’essere umano in certe funzioni, ma cosa accade alla nostra identità quando quel confine si sfuma.
Nel celebre saggio “Computing Machinery and Intelligence”, pubblicato nel 1950 sulla rivista Mind, Alan Turing apre con una domanda che avrebbe segnato la filosofia della tecnologia per i decenni successivi:
“I propose to consider the question, ‘Can machines think?’”
Ma cosa intendiamo per “pensare”? E cosa, di conseguenza, per “macchina”? Piuttosto che rispondere direttamente, Turing elabora un esperimento – quello che oggi chiamiamo Test di Turing – in cui il comportamento linguistico diventa il criterio per attribuire (o simulare) intelligenza.
Oggi, a oltre settant’anni da quella pubblicazione, la questione si è radicalmente trasformata. Non ci chiediamo più soltanto se le macchine possano pensare, ma che tipo di essere pensante stiamo costruendo, e che tipo di essere pensante stiamo diventando noi, quando conversiamo, apprendiamo, ci affidiamo a sistemi capaci di generare testo, immagini, consigli, diagnosi, decisioni.
Il confronto con le intelligenze artificiali generative – che imitano la logica, lo stile e perfino l’emotività del linguaggio umano – ci costringe a riflettere non tanto sulle macchine, ma su ciò che intendiamo per intelligenza, coscienza, linguaggio, relazione. Come notava Turing, se giudichiamo una macchina intelligente in base alla sua capacità di imitarci, allora forse il problema non è solo capire cosa sia una macchina intelligente. È comprendere meglio cosa siamo noi, in un mondo in cui l’umano diventa sempre più algoritmico, e l’algoritmo sempre più umano.
Le intelligenze artificiali non sono coscienti. Ci rispondono. Ci imitano. E, così facendo, ci obbligano a guardare noi stessi.
Le intelligenze artificiali non sono coscienti. Ci rispondono. Ci imitano. E, così facendo, ci obbligano a guardare noi stessi. Scrivono saggi, traducono emozioni in testo, generano voci sintetiche con tono empatico. Sono specchi in cui ci riflettiamo.
Il filosofo Luciano Floridi definisce le AI come “agenti artificiali” capaci di agire nel nostro mondo. Non pensano come noi, non sentono come noi, ma agiscono con effetti reali. Il problema non è la loro umanizzazione. È la nostra disumanizzazione di riflesso: iniziamo a giudicarci attraverso parametri di efficienza, velocità, produttività, dimenticando tutto ciò che in noi sfugge al calcolo.
Come osserva Francesco D'Isa: “L’idea del genio isolato che crea dal nulla è una costruzione romantica. La creatività è sempre stata collaborativa, e le AI lo rendono evidente.” [Su Internazionale di Alberto Puliafito]
Inoltre, che cosa significa essere umani in una società in cui il valore di una persona è sempre più tradotto in dati?
Ogni nostra azione online viene processata e profilata. Le AI non comprendono chi siamo: leggono le nostre tracce digitali. E da lì ricostruiscono una “persona simulata” a cui fornire pubblicità, contenuti, interfacce personalizzate.
Siamo, a tutti gli effetti, diventati “dataset viventi”.
Questo ha un impatto profondo non solo sulla nostra privacy, ma sulla nostra percezione di noi stessi. Se gli algoritmi ci mostrano continuamente ciò che pensano ci piaccia, cosa succede alla nostra capacità di desiderare? Se ci dicono cosa leggere, chi amare, dove viaggiare, cosa resterebbe delle scelte realmente nostre?
Andrea Daniele Signorelli sottolinea: “Il termine intelligenza artificiale potrebbe far pensare a macchine dotate di vera conoscenza, in grado di ragionare e consapevoli di ciò che stanno facendo; le cose, invece, sono molto diverse.” [Il Tascabile]
C’è infatti qualcosa che continua a distinguere l’umano dalla macchina. Non è l’intelligenza, né la creatività, almeno non più in senso assoluto. È la capacità tutta umana di usare la propria esperienza per dare senso alla propria esistenza.
L’intelligenza artificiale può simulare tutto questo, ma non viverlo.
Paolo Benanti ci ricorda: “L’IA non è solo una tecnologia, ma una nuova frontiera di conoscenza. La sfida è orientarla per un autentico sviluppo umano che non crei disuguaglianze globali.” [Italian Tech di Bruno Ruffilli]
La ridefinizione dell’identità umana nell’era dell’AI non è solo un tema filosofico. È anche e soprattutto politico.
Chi ha il potere di definire cosa sia “umano”? Chi stabilisce i criteri per cui una macchina è “utile” o “dannosa”? Chi decide quali funzioni umane devono essere automatizzate e quali preservate?
Dietro ogni AI c’è un’architettura di potere. I modelli linguistici sono addestrati su dataset che riflettono visioni del mondo - spesso occidentali, patriarcali, normate. Se non mettiamo in discussione il contesto valoriale che le strutturano, rischiamo di legittimare una forma di "colonialismo cognitivo" proposto come progresso.
Forse allora la risposta alla domanda “chi siamo?” non sta nell’opposizione macchina/umano, ma in un cambio di prospettiva. Non siamo un’essenza da difendere. Siamo un processo in divenire.
L’essere umano, in questa visione, non è un centro stabile ma una rete di relazioni, desideri, affetti, memorie - sempre in cambiamento.
L’AI può ampliare questo processo. Può renderci più consapevoli dei nostri limiti, delle nostre scelte, della nostra interdipendenza.
Ma per farlo, dobbiamo restare vigili. Dobbiamo evitare di cedere il nostro pensiero critico agli output dei chatbot. Dobbiamo mantenere uno spazio di dubbio e di ricerca. In altre parole, restare umani.