Il “mostro”, come i miei colleghi informatici lo avevano subito soprannominato, appariva come un corpo centrale di ferraglia, dall’aspetto diciamo pure abbastanza spaventoso, a cui un groviglio emblematico di cavi connetteva decine di “periferiche”: unità a nastri e a dischi, ma anche lettori di schede, tastiere, video e stampanti; elementi che tutt’insieme al corpo centrale del mainframe occupavano circa duecentocinquanta metri quadrati di superficie di un edificio adibito a tale unico scopo. Ebbene, quel mostro ebbe il merito di mostrare agli scettici dell’epoca che una rivoluzione stava davvero avvenendo: era, infatti, il primo computer dotato di una memoria interna in cui tutti gli elementi fisici (resistori, condensatori e diodi) erano realizzati su un singolo chip di silicio. Che poi quel chip fosse assai meno potente di quello del PC con cui sto scrivendo adesso, quasi mezzo secolo dopo, questo articolo è tutta un’altra cosa… Chi a quel tempo l’avrebbe mai ipotizzato?
Perché sto provando a ricordare quel mio primo incontro con l’informatica? Perché quando penso all’IA mi viene in mente sempre l’incredibile evoluzione che ha permesso adesso a un’altra “macchina”, sistemata però solo in un angolo della mia scrivania, di fare cose ancora più incredibili di quello che quel gigantesco IBM era allora in grado di fare, grazie comunque solo alla perizia di decine di operatori e programmatori senza i quali rimaneva solo un pezzo di ferraglia e nulla più; mentre adesso aiuta me in mille attività e in modo semplice, senza la necessità di aiuti esterni.
D’altronde io alla fine non sono nemmeno un ingegnere dell’hardware né del software, ma solo un banale antropologo culturale e un ancora più banale giornalista, capace tuttavia di sfruttare quella piccola ma potente “macchina”, mille volte più piccola del mainframe di allora e nel contempo incredibilmente più potente, della quale come tanti altri non riesco più a fare a meno per scrivere articoli e libri, fare ricerche sfruttando la rete di internet (provando a non farmi fregare troppo dai motori di ricerca), ma anche scrivere messaggi e lettere ascoltando nel frattempo un po’ di musica, fare acquisti o verificare le previsioni del tempo o l’arrivo in tempo reale di un volo su cui è imbarcato un figlio, ecc. Sempre che a rendermi connesso non sia il mio vetusto “cellulare” che sta sul palmo di una mano.
Ma c’è di più: come tutti quelli della mia generazione, insieme a quella dell’informatica ho vissuto tante altre esperienze “evolutive” dell’umanità (perché di questo dobbiamo in realtà parlare), dalla trasmissione simultanea delle immagini via satellite (che ci ha consentito di connetterci in tempo reale da un punto all’altro del mondo guardando in tempo reale persone, luoghi, ma anche guerre e uragani), alla nascita della rete di internet, ormai a disposizione di tutti, fino alla trasformazione radicale anche della telefonia e all’utilizzo di telefoni portatili che fanno un po’ di tutto (fra cui “anche” telefonare!), e alla comparsa e alla moltiplicazione dei social (con i quali non ho mai avuto in realtà particolari rapporti di empatia o di simpatia…). Tutte cose che oggi le nuove generazioni (in particolare quelle dei “nativi digitali”) sono abituate a usare come se fossero sempre esistite e come se fossero sempre state a disposizione di chiunque (cosa che in realtà non è sempre vera nemmeno oggigiorno). Ma il mondo mezzo secolo fa non era affatto simile a quello odierno: per dirne una, quando io sono nato i miei vagiti si confondevano con quelli emessi dalle prime sperimentali trasmissioni televisive italiane. Ma sono felice di poterlo ricordare e ogni tanto raccontare, come in quest’occasione.
Per un antropologo come me seguire quest’evoluzione è stata una cosa importantissima; e lo è continuare a seguire questa evoluzione insieme alle sue conseguenze sul piano delle relazioni interpersonali e su quello sociale, intercettando e interpretando anche le discriminazioni emergenti fra chi si trova al centro di questa rivoluzione antropologica e chi invece ne rimane ancora escluso per motivi economici o geografici oppure per eventi discriminatori (politici, religiosi, ecc.). Studiare le culture, infatti, non significa solamente studiare quella degli altri, lontani da noi, ma studiare anche noi stessi e il nostro modo di vivere sociale nella sua quotidianità e nel divenire della storia, giorno per giorno, anno per anno: chi eravamo, chi siamo, chi forse saremo.
Ecco perché, proprio in quanto antropologo culturale, sono così interessato all’IA, anche se i miei contatti personali con “lei” non sono stati finora molti: qualche dialogo con ChatGPT però c’è stato fin dall’inizio del 2023, come testimonia la trascrizione di una di queste “conversazioni” in un capitolo di un mio libro uscito quell’anno, “Essere antropologi oggi”, da cui scaturirono poi anche alcuni articoli (fra cui quello pubblicato sulla rivista “Etnie” a giugno 2024, consultabile a questo link. e quindi di un interessante e stimolante dibattito a cui fui invitato sempre quell’anno (in qualità di antropologo culturale) insieme ad Alfredo Anania (psichiatra e psicoterapeuta) e a Roberto Clemenza (psicologo) promosso a Palermo dal Centro Paul Lemoine e dal Centro Clinico Il Nodo sul tema “Psicologie e antropologie della contemporaneità: interazioni, dinamiche, esperienze a confronto”.
A me, sostanzialmente, interessa poco quindi il dibattito sui pro e i contro (in astratto) dell’IA nel mondo d’oggi. Interessa capire molto di più dove andrà l’umanità sfruttandola (perché non può essere interrotto il suo viaggio in mezzo a noi), ma anche a chi gioverà davvero e chi invece la subirà e chi ancora proverà a combatterla (una visione apocalittica?); ma voglio anche capire quanto grandi saranno le fratture e le differenze che certamente emergeranno fra chi sarà in grado di gestirla (e/o dominarla) e chi invece ne dovrà solo accettare più o meno supinamente le conseguenze.
Il dibattito sui pro e i contro nei confronti della intelligenza artificiale è ininfluente, conta di più capire dove l'evoluzione della specie umana dopo quella che è una vera rivoluzione in atto
Parto, infatti, da una riflessione di fondo: in questo momento in tanti stanno dietro al lavoro delle varie IA, anche se sono soprattutto aziende statunitensi e cinesi ad aver investito e a continuare a investire il massimo delle loro risorse su questo aspetto del nostro futuro. L’Europa, come ormai avviene in molti campi, sta ancora una volta dimostrando la sua inesistenza geopolitica e la sua inconsistenza sia dal punto di vista economico-finanziario che da quello ideologico e culturale rispetto ai due giganti citati. Ma, come sempre, l’IA non è vista né tanto meno progettata per una accrescimento idealistico dell’umanità nel suo complesso, ma per ben più specifici interessi economici di parte e per motivazioni ben più prammatiche e utilitaristiche, sempre che alla fine a diventare prioritaria non sia solamente la voglia di predominio in campo geopolitico (e quindi militare) di una delle due superpotenze.
Ma alla fine dobbiamo anche capire chi sta lavorando ai vari progetti di IA: come già scrivevo nei miei citati articoli su “Etnie”, anche il contributo degli antropologi, oltre che di psicologi comportamentali, è già ampiamente applicato nell’elaborazione e nell’evoluzione strutturale dei sistemi di intelligenza artificiale, oltre naturalmente alla presenza di tecnici informatici e gestionali, affinché questi sistemi possano interagire con noi “apparendo” a loro volta quanto più umani possibile nelle loro reazioni e nelle loro risposte.
Già oggi, parlando di sistemi di IA, non facciamo riferimento solo a relazioni astratte fra l’uomo e la macchina, come cercare risposte a una domanda tramite una tastiera o un messaggio vocale oppure fare elaborare o rielaborare un testo o controllare una ricerca a ChatGPT e simili; facciamo riferimento in alcuni casi anche a relazioni concrete, seppur non “corporee” con forme evolute di reti, basate anche su computer quantici, dove chip e sequenze di dati surrogano le modalità dei flussi neuronali del nostro cervello, ma sfruttando velocità e modalità di calcolo e gestione delle probabilità per noi irraggiungibili.
Oltre agli assistenti vocali come Siri e Alexa, in grado di eseguire i nostri comandi nell’ambito dell’“internet delle cose”, numerose sono già nel mondo le applicazioni di robotica industriale in grado di sostituire gli umani in lavori ripetitivi e pericolosi (nei cantieri, nella logistica, nell’ambito militare) o, ancor più significativamente, nell’assistenza a persone anziane o affette da problemi medici o neurologici; persone che, anziché ricorrere a un badante umano, hanno a loro disposizione un umanoide robotico che non si stanca mai, non ha un costo retributivo mensile, né può avanzare rivendicazioni sindacali, ecc. ecc.
Non si tratta già oggi di pensare a ipotesi di fantascienza dato che questa tecnologia esiste e in forma spesso già avanzata; secondo un rapporto recentissimo della società Markets&Markets (che si occupa di consulenze strategiche e analisi macroeconomiche globali), è un mondo che ovviamente si andrà sviluppando sempre più velocemente e che raggiungerà nel mondo i dodici miliardi di dollari di investimenti nel solo settore dei robot sanitari: alcuni modelli, soprattutto fra Stati Uniti e Giappone, sono già sul mercato; altri, ancora più evoluti, sono in fase di sperimentazione. Tutti ovviamente sono imperniati sull’IA, e non certo su quella (alla fine un po’ banale) con la quale proviamo a colloquiare attraverso il nostro PC o il nostro smartphone o che risponde alle nostre domande sui motori di ricerca senza che nemmeno ci accorgiamo della sua esistenza (mentre lei è pronta a creare di ognuno di noi uno skill sempre più preciso e continuamente aggiornato che riguarda chi siamo, dove siamo, quali sono i nostri gusti, le nostre preferenze, ecc.).
Ma, affinché un robot umanoide possa sostituire un badante o un infermiere umani nelle loro occupazioni quotidiane (e prima o poi perfino uno psicologo e, chissà, anche un ministro di culto magari nel suo confessionale!), non basta certamente l’IA di un motore di ricerca. Serve molta più tecnologia, più evoluzione e molta più integrazione. Un “androide”, come li definì Ridley Scott nel suo fantastico film “Blade runner”, deve essere “accettato”; deve esserlo dal paziente o dall’anziano al quale è dedicato e/o dalla comunità che lo utilizza.
Ma, sempre con riferimento a un “robot caregiver”, prim’ancora di essere accettato, deve superare una serie di importanti controlli e accurati interventi che garantiscano, oltre alla sicurezza dell’assistito e all’accuratezza delle modalità di assistenza per cui la “macchina” è stata ideata, anche quella carica empatica e quella capacità di adattamento e di evoluzione che, sua sponte (si fa per dire!), deve essere in grado di evidenziare nel tempo, fatta salva la necessaria “assistenza” periodica a cui come ogni macchina sarà soggetta.
Non si tratta di un’evoluzione in termini meccanici o quantistici, come fare più rapidamente una cosa per cui il robot è progettato, bensì farla più accuratamente e più empaticamente, e soprattutto imparare a farne di altre, ogni volta che è necessario, senza che da remoto qualcuno, stavolta un umano, glielo insegni con l’inserimento nella sua memoria operativa di ulteriori procedure, applicazioni, routine e sub-routine. Questo significa semplicemente che il robot in questione esiste perché c’è al suo interno, se non un “cervello” che surroga le attività di quello umano, una forma di “intelligenza artificiale” in grado di autogenerarsi, modificarsi, implementarsi, correggersi, ecc., per esempio tramite connessione continua con sistemi di cloud IA che consentono aggiornamenti in tempo reale senza la necessità di interventi di assistenza esterni o manuali.
E allora dobbiamo anche pensare, al di là del dibattito in corso su come utilizzare (e se utilizzare) l’IA, che nel giro di una o due generazioni al massimo potremmo avere nelle nostre case una macchina “intelligente” che, come accadde ad Alberto Sordi nel film “Io e Caterina”, ci farà compagnia, porterà a spasso il nostro cane e potrà assistere i nostri anziani o i nostri figli quando non ci siamo, e ovviamente ogni giorno e a ogni ora cucinerà per noi e pulirà dappertutto, senza mai lamentarsi o chiedere un aumento di retribuzione o andare in ferie. Ipotesi? Nient’affatto: il robot umanoide Optimus, creato da una delle aziende di Elon Musk, potrebbe arrivare sul mercato già alla fine dell’anno prossimo al costo di un’autovettura; mentre Aria (questo il nome di un altro robot con fattezze umane femminili), appena presentato al CES di Las Vegas, è già in vendita in via sperimentale negli Stati Uniti per fare conversazione e intrattenere gli umani facendo loro compagnia. E poi già in alcuni ristoranti cinesi e giapponesi sono gli androidi a prendere le ordinazioni e servire i clienti, avendo sostituito in tale compito i camerieri tradizionali in carne e ossa.
E allora, se mi permettete, smettiamo di discutere in astratto dei pro e dei contro dell’IA e delle sue possibili applicazioni future. Il futuro è già fra noi e non lo abbiamo sentito nemmeno arrivare: forse eravamo troppo intenti a manovrare accanitamente sul nostro smartphone!
smettiamo di discutere in astratto dei pro e dei contro dell’IA e delle sue possibili applicazioni future. Il futuro è già fra noi e non lo abbiamo sentito nemmeno arrivare