Viaggiare e sentirsi a casa in un luogo. Non dipende dalla durata della permanenza. Dipende dall’intima sintonia con il luogo, con la cultura, con l’ambiente. L’accoglienza è qualcosa di sottile e involontario, e fa il paio con l’altrettanto involontaria disponibilità a sentirsi a proprio agio, immersi nella quotidianità locale, straniero sempre, ma a proprio agio.
Ho vissuto questa consonanza a Buenos Aires, più raramente a Ciudad de México, ma in nessun posto come all’Avana.
Tornare dal Paseo de Martí attraversando l’Habana Vieja, oppure passeggiando lentamente lungo il malecón. Dare un ultimo sguardo al mare grigio, salire su per la Rampa: El Vedado. La Heladería Coppelia, il cinema, i banchetti dove si vendono libri. L’Hotel Habana Libre.
Mi sveglio, quel giorno, non so a che ora di preciso, scosto le tende e guardo fuori e vedo strade poco trafficate, è día feriado, festivo, qui come in tutto il mondo, ma qui forse è diverso, ieri la televisione -che è solo, rigorosamente di Stato- non ha fatto altro che parlare dell’evento, in modo martellante, incombente: la concentración per festeggiare el día internacional de los trabajadores. Qui all’Avana ed in ogni altro centro del paese. E’ già stato annunciato che qui, nella Plaza de la Revolución, sotto la torre di Marti, con alla spalle il volto del Che che ripete ¡Hasta la victoria sempre!, è già stato annunciato che qui come in ogni altro luogo la concurrencia será masiva, qui si è detto un milione di persone. (A volte gli annunci tradiscono l’ansia di insuccesso).
La finestra è in realtà un'ampia vetrata che copre l’intera parete, decimo piano dell’Hotel Habana Libre, storico luogo della rivoluzione, era l’Habana Hilton appena costruito, fu il primo quartier generale dell’Esercito Rivoluzionario. Sulla sinistra, più in alto di ogni altro edificio si staglia la torre di Martí, ma non riesco a vedere folla, segni particolari, il panorama è immoto e uguale a se stesso. Accendo il televisore. La concentración è iniziata, sta parlando una ragazza poco più adolescente, giovane militante, parla per frasi fatte, dice ciò che deve essere detto, ribadisce l’orgoglio socialista e rivoluzionario e patriottico. El lema de la fiesta quest’anno è ‘Primero con la Patria’, si gioca sul doppio senso: Primero de Mayo è Primo Maggio, ma primero traduce anche l’italiano prima: prima, innanzitutto con la patria. Ci sono cubani prigionieri a Miami, sono gli eroi assenti di questa giornata, volverán, torneranno, si legge in uno striscione alle spalle dell’oratore. E riecheggiano nella parole della ragazza i temi che occupano con insistenza la Mesa Redonda serale, il programma cardine della televisione cubana: il maltrato che ha subito Fidel alla Cumbre de Monterrey; l’accusa promossa o sostenuta da altri stati ispanoamericani in merito alla violazione di diritti civili a Cuba; la bestia nera Castañeda, ex rivoluzionario de izquierda, ministro degli esteri nel governo messicano.
(Solo una alternativa, la sera, in televisione: i cartoni animati del coniglio Bunny. Sarebbe un programma per i bambini, ma sono tanti gli adulti che ammettono, con autoironia, di cambiar canale).
Scendo al secondo piano per fare colazione. Stridente contrasto con la manifestazione in corso, con il discorso della ragazza che, immagino, sta continuando a parlare. Turisti ignari, già abbigliati per la piscina, turisti chiusi nel loro mondo vacanziero, io con loro, consumiamo la ricca colazione, in un derroche di latte yogurt brioches fiocchi Kellogs uova carne formaggio marmellata verdura frutta tropicale, in un paese dove la questione que saca de quicio a todos è mettere insieme la comida diaria, il cibo è contingentato e si acquista con la tessera, è poco il latte per i bambini, l’olio, noi qui mangiamo cibo preparato e servito da persone che non possono godere di questo cibo, eppure la nostra presenza di turisti è l’unica maniera procurare il cibo ad ogni cubano, la fonte di divisa extranjera, la fonte di sostentamento del sistema economico.
E’ la contraddizione del turismo, penso, la ‘contraddizione principale’ (tutti abbiamo nella memoria qualche retaggio di terminologia marxista). Agli inizi degli anni novanta crisi, anni durissimi. Si deve trovare una maniera di far fronte alla scomparsa del blocco sovietico. Forse si era arrivati impreparati a quel momento, si ammette ora ricordando.. Ma in ogni caso ci si trovava di fronte ad un inevitabile cambiamento. E fu il Periodo especial, durante il quale il turismo divenne una irreversibile fonte di ingresso. Il turista è necessario, il turista porta divisa. Ma il turista è anche ingombrante e dannoso per un mondo che traeva vantaggio dal suo isolamento e dalla sua chiusura. La purezza ‘rivoluzionaria’, il consenso sociale fondato sulla diversità e sulla misconoscenza di cosa accade fuori dai confini sono ovviamente messi a repentaglio dal turismo più che da qualsiasi altra forma di produzione di ricchezza.
Il turista non è un manufatto, non è un prodotto di esportazione, è una persona che visita il tuo mondo. Il turismo non può ridursi a giornate spese sulla spiaggia di Varadero. Il turista non può essere mantenuto chiuso negli hotel. E anche se il turista è, come spesso accade, stupido ed ottuso, non lo sono i cubani, che hanno occhi e orecchi. Il turismo ha il difetto di mostrare come positivo e vincente lo stile di vita consumista che l’etica rivoluzionaria critica e considera un male. Per il soggetto allevato dalla rivoluzione il turismo è distruttivo: illude, spinge a pensare che con il denaro tutto si può. Il turismo spinge alla collusione: la persona bisognosa accetterà di soddisfare anche i bisogni sordidi del visitatore. Il turismo propone scorciatoie: scucire qualche soldo ad uno straniero vale come giornate e mesi interi di lavoro. O invita a cercare umilianti vie di uscita, cercarsi un amante straniero che di là mandi un po’ di denaro
L’ho provato di frequente, acosado appena fuori dall’albergo, o in Centro Habana da ragazzi e da adulti e da anziani che raccontano storie patetiche, o mirano subito a fregarti, ho distribuito un po’ di dollari, mi sono lasciato rubare cinquanta euro. O sul Malecón jineteras o putas che dir si voglia se te arriman, si meravigliano magari davvero del fatto che un uomo solo non sia qui per questo, e prima ti toccano e fin ti mettono le mani addosso, poliziotti o guardie che sia, vedono e non dicono niente, sembrano quasi d’accordo. E ho gli occhi pieni della povertà che ho visto qualche giorno fa, alla periferia di Santiago.
Contraddizione nella contraddizione, la rentabilidad del turismo. Mi spiegano conoscenti cubani che questo è il problema di oggi. Fatti molti investimenti nel settore, essi non si sono rivelati remunerativi come ci si era aspettato. Il perché si può spiegare così: l’investitore straniero può operare a Cuba solo attraverso imprese miste. Lo stato cubano ha il cinquantun per cento di ogni impresa mista. L’impresa mista, cogestita, subisce quindi lo stile di direzione burocratico delle imprese cubane. Non essendo contendibile, non è spinta dal mercato verso l’efficacia. E non acquista valore, perché nessuno la può comprare.
Scendo per strada e mi incammino verso Plaza de la Revolución, che non è lontana: il mercato ha regole del gioco criticabili e anche ciniche che è del tutto legittimo rifiutare. Ma è arduo pensare di poter ottenere risultati giocando a questo tavolo se, per accanimento o per etica, ci si mantiene fedeli ad altre regole. Essere diversi ha un costo - non ci si può puoi lamentare se gli altri, chi ha scelto l’economia del mercato, non ci si può lamentare se gli altri non ci considerano affidabili appartenenti alla comunità del business.
Passo accanto all’Università, nobile e scrostata, avevo già fatto questa strada qualche giorno fa, incrocio persone che fanno i fatti loro e godono del giorno di festa, quando arrivo sul viale che immette sulla piazza mi accoglie la voce di Fidel. Non lo vedo, lo immagino per come l’ho visto in televisione pochi giorni fa. Parla da anziano, con la voce che a tratti si rompe e mostra la fatica, legge alla lettera un discorso già scritto. Raramente, per pochi istanti, torna a galla la leggendaria, faconda oratoria: ora solo abbastanza di rado alza lo sguardo dai fogli ed esce dalle righe, passando al tono colloquiale, scherzoso anche, appoggiato sulla consolidata, paterna familiarità che lo lega al suo popolo.
Entro nella piazza, la folla non è così folta da impedirmi di farmi avanti, arrivo a vedere Fidel sul palco, tra qualche ombrello aperto per proteggersi dal sole e qualche bambino issato sulle spalle. Mi fermo lì. Accanto ragazzi in uniforme della scuola, famiglie, qualche giovane.
Fidel non viene meno al suo stile, che è tutt’uno con i contenuti del discorso. Il nemico è esterno, è feroce, noi siamo nel giusto, la storia ci assolverà. No existe el pais con la autoridad moral para una condena contra Cuba. Si ripete: si ergono a giudici, ma carecen de la actitud moral para serlo. La mozione di censura votata dall’ONU a proposito di volazione de los derechos humanos a Cuba è l’infamia di Ginevra. L’OEA, Organización de Estados Americanos, è ora desprestigiada y repugnante. L’episodio di Monterrey è vergonzoso. Sucia è la politica de los lacayos del Imperio. Sin precedentes, imposible a conseguirse en cualquier otro lugar è il consenso di cui gode il governo cubano.
Fidel torna a parlare di Jorge Castañeda, Secretario de Relacciones Exteriores de México, senza nominarlo, ma esponendolo al pubblico ludibrio.
Fidel parla, logorroico. Il vecchio rivoluzionario è stanco, il carisma è in qualche modo incrinato, ma in fondo intatto. Con tutto, è convincente, a tratti trascinante, sempre in grado di tenere la scena.
Arrivano persone vicino a me, cubani, Fidel, di qui lo vedo, dicono con emozione, forse con commozione. Arrivano anche stranieri, spagnoli per essere precisi, con i loro patacconi orologi ancora fissi sull’ora di Madrid e con le loro macchine fotografiche con il teleobiettivo sguainato, si sbracciano e si mettono davanti per fotografare, maleducatamente, in fondo questo è un rito, uan celebrazione, un po’ di rispetto almeno.
La voce amplificata vola sulla piazza. La scena è di cartapesta, ma sorte il suo effetto. Cuba non è solo questo, non è rappresentata da questo spettacolo. Ma le contraddizioni, che ci sono, devo andarle a cercare scavalcando la mia stessa emozione ed il mio stesso coinvolgimento. Riandando, mentre lui parla, ad altre parole, persone modeste che ho conosciuto in questi stessi giorni, persone con le quali ho parlato di semplici cose legate alla vita quotidiana, alle piccole gioie, ai dolori ai bisogni e ai sogni e alle frustrazioni. Aneddoti, sensazioni, modesti brandelli di racconti, cubani oltre la retorica del cubano allegro e lottatore, e di Cuba primo territorio libero d’America che tiene testa con successo al più crudele imperialismo che la storia umana abbia mai conosciuto.
Fidel è il Líder Máximo, ma anche altri hanno voce.
Difficilmente saranno in condizione di scegliere per chi votare i popoli di altri paesi dell’America Latina, sommersi da un diluvio di propaganda, continua Fidel - ma è difficile negare che anche i cubani siano sommersi da un diluvio di propaganda. Scolarizzazione e speranza di vita, AIDS, medici e insegnanti: Fidel elenca dettagliate statistiche tese a dimostrare la migliore qualità di vita di Cuba rispetto ai paesi latinoamericani che hanno sostenuto la mozione contraria a Cuba. Tutti i cubani credo considerano conquista degne e irrinunciabili il sistema scolastico ed il sistema sanitario. Ma, penso, a cosa serve l’istruzione se la stampa si riduce a tre striminziti quotidiani ufficiali e se i libri scarseggiano e se e un quaderno in più rispetto a quello fornito dalla scuola uno non ha i soldi per comprarlo. E mi tornano in mente le parole di quel compare dignitosissimo nella sua povertà che mi diceva che a lui interessa leggere, e con orgoglio precisava che tiene unos cuantos libros, due dizionari di inglese e si arrangia a leggere ma non ha soldi per comprare libri e poi non ha tempo, il tempo è totalmente occupato dal cercare di mettere insieme, arrangiandosi, il cibo per la famiglia. Al suo desiderio di sapere non corrispondono conoscenze, gli interessa la geografia, ma manca una idea accettabile di come è fatta l’Europa, anche l’America Latina. (C’è un paese piccolo come Austria che è ricco, come è possibile, e penso che sia implicito un paragone con Cuba).
E la salute: sistema sanitario cura, ma ora, sempre per colpa dell’inesorabile bloqueo americano - non sarà mai che di qualcosa siamo responsabili noi cubani, perché Fidel non lo dice – manca questo e quest’altro. Hanno senso piccole storie: non c’è il materiale per incapsulare una otturazione, deve arrivare dall’estero, una persona che guadagna centoquaranta pesos al mese deve pagare il materiale, trenta pesos.
Fidel dice: “La nostra è un’etica diversa, lontana dal dominio illusorio del dollaro”. Ma il dollaro oggi è in assoluto il bene più codiciado dai cubani, con il dollaro si può tutto, il dollaro è il tramite per ogni felicità e più semplicemente per una vita appena tranquilla.
“Noi siamo lontani dai feticci del consumismo”, dice il Líder. “Difendiamo il popolo da questa aggressione che occupa la mente delle persone. La nostra televisione, che è pubblica, non trasmette pubblicità”. Ma i feticci del consumismo, i marchi ed i brand, i simboli di status arrivano con i turisti e per la stessa forza del desiderio di non essere obbligatoriamente diversi, e sono comunque ben noti, e qui nella piazza vedo intorno a me cubani con magliette e cappellini e scarpe che portano il baffo Nike, altri marchi sono imitati con nomi e icone simili, il che parla ancora di dipendenza dai feticci, e alla dipendenza aggiunge l’umiliazione di non poter accedere all’originale. E ancora, penso, anche i simboli della rivoluzione sopravvivono nell’immaginario come griffe, come brand, basta tornare con lo sguardo a quella ormai immodificabile immagine che campeggia sulla piazza: il Che, col suo basco, i capelli lunghi la barba accennata, lo sguardo fiero. Tutto può diventare feticcio, consumismo, illusione rivoluzionaria fatta merce.
Arriva intanto un momento nel quale, per una via discorsiva laterale, parlando di come sia eticamente riprovevole dire mentiras, menzogne, bugie, arriva un momento nel quale Fidel tira fuori dal suo sacco di artifici retorici il tema della religione. Ha buon gioco a ricordare las clases de catecismo que recibí en la escuela católica cuando estaba en primer grado.
Lui che aveva teorizzato il superamento dell’alienazione religiosa, usa la religione, ammicca al suo pubblico, che è religioso, parlando di religione. E ricordando appena possibile la visita del Papa, il Papa usato come fonte di legittimazione di fronte alla comunità internazionale. Con quale sollievo mi hanno parlato negri a Santiago dell’apertura religiosa di Fidel, attorno alla metà degli anni ottanta. Il libro più importante, non letto ma da tutti citato, è Fidel y la religión, in realtà una intervista concessa a Fray Betto. E’ il segno di cambiamento, la svolta che ha permesso di riconoscersi ancora nella rivoluzione, o forse dovremmo dire nel fideismo, che in fondo è una religione.
Parlavo con un onesto padre di famiglia, innanzitutto mi chiede di che religione sono, fa abbastanza confusione e non è in grado di distinguere e di organizzare in famiglie, católicos, evangelios, e via fino ai Testigos de Jeová, Testimoni di Geova, l’unica religione veramente criticata perché con questo le non donare sangue eccetera, mi viene spiegato, si finisce per essere contro Cuba, contro la patria. Lui è pentecostale, il motivo è più sottile di quello che avevo inteso all’inizio, i pentecostali no tienen iconos, non ci sono immagini da adorare, è una manifestazione di serietà e di concretezza, un allontanamento dal sincretismo che fonde cattolicesimo e santería, altari carichi di immagini nelle chiese, ricordo il santuario del Cobre, altares nelle case, con davanti offerte, un po’ di cibo, un bicchiere mezzo pieno, una fetta di dolce, e lì si sa che è Ochún, ma anche la Virgen del Cobre; e Lázaro e tutti gli altri ‘santi’ che mi sono stati descritti.
E poi, chissà, essere pentecostale, in fondo forse anche è un allontanamento, per etica, per fede, anche dal culto di Fidel, anche lui è una icona, una icona che parla, lo sto ascoltando, chi arriva accanto a me lo indica a dito, vederlo è una festa.
E altri mi dicevano: alla concentración del primero de mayo ci vanno solo quelli che credono ancora nella Rivoluzione, o almeno in Fidel, credo che siano molti, ma certo c’è anche la Cuba dei cuentapropistas, quello che in Italia sarebbe il popolo della partita IVA, con la differenza che qui l’IVA non si paga, e il sistema si avvita in una spirale perversa. Siccome si pensa che non verrà pagata, si mettono tasse, forse non si può nemmeno tecnicamente parlare di imposte, tasse d’ingresso e tasse salate da pagare anticipatamente, mensilmente, a prescindere dal fatturato che si farà, così per esempio per gli affittacamere, tasse diverse da zona a zona, per esempio più alte nelle zone dove ci sono hotel, per non danneggiarli. Spirale perversa, perché accade che questi costi fisso spingono a denunciare fatturati più bassi del reale, e quando è possibile a lavorare in nero. Esiste un fiorente settore di ‘economia parallela’, o come si dice più frequentemente in America Latina informal, economia che si alimenta di dollari e che elude le imposte, come del resto in tutta l’America Latina, però ora sento Fidel criticare il liberismo di Chile, Uruguay e via dicendo, dice appunto che è un liberismo crudele e ingiusto e provoca la crescita del sector informal e pobreza, ed è vero, però anche qui c’è economia informal, e credo che non si voglia lasciarla crescere ed emergere perché non si vuole vederla trasformata in opposizione politica esplicita e legittimata.
E se pure devo sforzarmi a ricordarlo in questo momento di festa e di esibizione di purezza e di diversità, sí en Cuba hay pobreza, vera, dura povertà. Non posso dimenticare quello che ho sentito con le mie orecchie, pobreza, pasar hambre. Certo, ho visto con i miei occhi povertà più disperata in altri luoghi di Ispanoamerica, in Ecuador, in Perú, in Venezuela, certo, ma anche questa è povertà estrema, ingiusta, imposta a persone che vorrebbero e potrebbero migliorarsi. Penso a Santiago. Non parlo della povertà dignitosa del Distrito, sono edificios, condomini degli anni sessanta o settanta, modesti, niente più dell’essenziale, tre nuclei familiari possono essere costretti a vivere in una casa, ma c’è una base che permette alle persone di arrangiarsi. Parlo della povertà dura del barrio Santa María, per esempio. Non si può parlare di vere case, se lo sono sono autocostruite, e fuori di legge e di regole, di dice ci vive, legno, altri materiali di recupero, latta, o di terra, muri tirati su alla meno peggio, suolo di terra battuta, se uno non si arrangia e si compra i sacchi di cemento e un po’ alla volta ed ecco il pavimento. Anche la cucina può essere un fornello a gas abusivo, c’è un water, ma non un lavandino o acquaio, solo sul retro allo scoperto tra galline razzolanti un rubinetto sopra un bidone. Però, contraddizioni, dentro un frigo dato da un parente, e con questa strada sterrata piena di buche, molti hanno l’automobile, con tutta la difficoltà che c’è qui per avere un carro particular. Del resto anche avere un carro fa parte di questa vita fondata sull’arrangiarsi, sul lottare per mettere insieme il cibo quotidiano, credo sia più questo che un cedimento ad modo di vita americano, fondato sull’ostentazione, chi aveva questa idea in testa se n’è andato, sta a Miami.
L’educazione socialista, un certo rigore, un dare valore alle cose fondamentali, un sapersi contentare e godere con poco, un cinema, uscire a mangiare qualche volta, una modestia che pone limiti al desiderio di arricchimento gratuito, l’educazione socialista, credo, ha ottenuto risultati, però il troppo pesa, spettava a Fidel, non ai cubani prevedere il crollo del sistema sovietico, evitare di lasciarsi cadere addosso questa carenza di futuro, il Periodo Especial che significa stringere la cinghia, nel novantatre, novantaquattro, quando manca il petrolio, finiscono i pezzi di ricambio, la tecnologia sovietica sulla quale si fondava l’economia diventa obsoleta e no aguanta más.
Mi raccontano che era una vita meno povera più semplice negli anni ottanta, si usciva poco la serra, strade deserte, ora i turisti hanno insegnato a stare in giro, discoteca, hanno stimolato desideri che non possono essere appagati.
Desideri, alcuni, che non possono non essere ritenuti del tutto legittimi.
Desiderio di non faticare troppo per mangiare come si deve, come si mangiava negli anni ottanta, almeno, ma ora è peggio, perché si ha sotto gli occhi come mangiano i turisti, e ci sono questi negozi dove non si può entrare. E’ una fatica quotidiana che lascia indietro tutto il resto, che toglie tranquillità ed intristisce. Ci si arrangia, ma perché essere costretti a farlo, cosa abbiamo fatto di male per ridurci così. E tutto che le cose sono un po’ migliorate negli ultimi anni.
E Fidel parla dell’enajenamiento legato al capitalismo, all’imperialismo, e sono d’accordo che il nostro modo di vita è criticabile e che la speranza socialista di un mondo diverso ha un suo senso, posso anche concepire l’idea di un mondo volutamente chiuso, impermeabile alle brutture di un altro mondo che si rifiuta e dal quale si vogliono proteggere le persone, in un certo modo, qualcosa che ricorda le reducción, i mondi protetti costruiti dai gesuiti per gli indios. Un mondo costruito per buoni rivoluzionari, che crescano in pace lontani dalle sirene del mercato. Ma allora, penso, doveva restare un mondo chiuso. Ed invece il turismo ha fatto perdere per sempre l’innocenza.
Mangiato il frutto di una forse illusoria libertà, assaggiatolo almeno attraverso l’immagine distorta di un mondo diverso che portano con sé i turisti, non si può non desiderare qualcosa d’altro.
Ciò che ci manca, dice la gente, magari questa stessa gente che ora è qui ad ascoltare Fidel, è libertad, aquí no tenemos libertad, forse nemmeno prima c’era libertà, ma non c’era modo di percepirlo, non pesava, libertà semplici, libertà di uscire la sera, si sono luoghi dove possono andare solo stranieri, o la nuova élite interna che sono quelli che hanno almeno qualche dollaro, perché non si può viaggiare mi dice uno, dígame usted perché nosotros non possiamo vedere CNN en español, mi dicono, solo quei tre canali televisivi, lì ogni tanto trasmettono immagini di CNN o della televisione spagnola ma ci fanno vedere quello che vogliono. (Si diventa maliziosi così, perché sono negate libertà elementari. Anche qui, come in quei mondi contro i quali alza la voce Fidel, c’è monopolio exclusivo de los medios de comunicación, usati per una martellante propaganda).
E ho motivo di aggiungere che a Cuba solo pochissimi hanno l’e-mail e quasi nessuno può usare un browser, i server sono controllati, e qui dal mio punto di vista è dove si manifesta in modo subdolo e sottile il controllo, ho negli chi quello che ho visto un anno fa a Ciudad de México, gente humilde che per cifre accessibili accede a chioschi, per esempio nel metro, dove uno può fare uso della posta elettronica, cercare quello che gli pare con un buscador.
E siamo ora qua sotto la torre di Martí, l’apologeta della nuestra América mestiza, molti accanto a me sono persone di colore, ma se parli con gente di colore ti dicono c’è ancora di fatto razzismo, loro lo vivono sulla loro pelle, ci sono lavori mi dicono dove sono sempre preferiti i bianchi, sono esempi, casi, ma casi esemplari, chi parla è sincero, sentire raccontare queste cose fa pensare, mettiamo un posto alla reception in un hotel, viene scelta la ragazza cubana bianca, parla a malapena l’inglese, la negra fa le pulizie, anche se sa le lingue, e questo lo decide il manager cubano, il racconto anzi è così: passa il manager straniero, è una società mista, e lui non il cubano decide di invertire i ruoli.
Fidel continua a parlare, a ondate, quando il discorso raggiunge un culmine, una invettiva, l’affermazione di un primato cubano, una accurata claque spinge la folla disciplinata a inneggiare, e a sventolare bandierine cubane di carta. Ma non tutta la coreografia funziona come dovrebbe. Mentre Fidel intento sui suoi fogli parola dietro parola prosegue, inopinatamente dalla torre di Martí iniziano a scendere nuvole di… cosa? Tutti naturalmente alzano lo sguardo: sembrano coriandoli, sono in realtà quadratini di carta di colori diversi- La folla si distrae, guarda il cielo coperto da questa nuvola, questo stormo di uccelli, qualcuno cerca di afferrare i foglietti, Fidel si infastidisce per il brusio, cambia il ritmo, fino a interrompersi, voltandosi, mormorando qualche parola, cosa succede, poi si riprende chiedendo attenzione, abbiate pazienza, non ne abbiamo più per molto. Anche di fronte al fastidioso incidente, parla sicuro della relazione che lega alla sua folla.
Credo sia vero che nonostante tutto c’è un consenso diffuso, un consenso rassegnato ma anche orgoglioso, Fidel, è il nostro Líder, ci conosce, lo conosciamo, ha lottato eroicamente contro l’imperialismo americano, sarebbe lo stesso con un qualsiasi altro governo, la política es sucia en cualquier lugar, sento dire da molti, e quindi perché cambiare, potremmo finire peggio, però noi di questi dollari non vediamo niente, sembra che vadano a finire in una grande macchina che tritura e assorbe tutto.
Perché nei discorsi e nelle chiacchiere e nelle barzellette Fidel si salva, mentre molte le critiche al partito, all’apparato, alla Seguridad che tutto vede, alla burocrazia pesante e poco ragionevole.
Una notte, seduti al bar, mi dice in confidenza una ragazza: vedi, qua intorno i camerieri, se non lo conosciamo di persona, conviene sempre pensare che potrebbe lavorare per la Seguridad. Mi dice un ragazzo: alle riunioni di partito o del sindacato non ci vado più, non serve, c’è sempre chi comanda e a noi non ne viene niente. Sembra crescere una rottura sociale tra i professionisti dell’apparato da un lato e il resto dei cubani dall’altro. Per questo ho rovinato un’amicizia di quindici anni, mi dice uno, non si riesce più a parlare, si parlano linguaggi diversi adesso. Ora c’è questa storia del milione di televisori cinesi, devono essere distribuiti tra lavoratori in considerazione del merito, ma chi giudica il merito sono commissioni, ci sono criteri opinabili, bisognerebbe essere amico di qualcuno, io mi chiamo fuori, allora il televisore non lo avrò, ma sarebbe meglio dire o tutti o nessuno…
E poi quel ragazzo che mi diceva, bueno, queste storie che pasan por televisión en estos días, e allude al giudizio di Ginevra sui diritti civili a Cuba, se non abbiamo niente da nascondere, se siamo meglio degli altri paesi lasciamoli venire questi ispettori, che vengano qua, che guardino quello che vogliono. E aggiungeva una cosa forse ingenua, ma poi faceva un paragone acutissimo. Aggiungeva che ora nel quartiere dove vive c’è la strada dissestata e disastrata, stanno tappando qualche buco, qualche bache, perché potrebbero venire questi ispettori da fuori. Ma poi tira fuori questo paragone illuminante, che vale mille lezioni sulla transizione e sul management. Mi dice: le cose cambiano e no hay como, guardiamo al juego de la pelota, che sarebbe il baseball. Prima giocavamo con altre squadre del Caribe, vincevamo sempre, ci sentivamo i migliori del mondo, poi però c’è stata una apertura - e allora il gioco ha cominciato a farsi davvero duro, competere con le squadre di baseball USA le prime volte voleva dire perdere sempre, via via si impara ad essere all’altezza, ora a volte vinciamo e a volte perdiamo, ma così è la vida, è lucha, ma non vale confrontarsi con chi ha di meno e sta peggio, solo se ci si confronta con chi ha di più se logra la superación, si migliora.
Il discorso si avvia alla fine, il sole picchia forte ora. Applausi, evviva. Fidel si ritira, la coreografia riprende il sopravvento. Nuovi attori al centro della scena: la banda, giovani in uniforme. E la stessa folla. L’Internazionale cantato in coro dà i brividi, porta con sé storia, ma è sopratutto segno di una coscienza di massa, di un presente vissuto insieme, la risposta ad un bisogno di identità collettiva. Si percepisce l’abbandono confidente a un sistema che si prenderà cura di noi. Molte promesse della Rivoluzione, ognuno sa, non sono state mantenute. Ma si può dare la colpa al nemico esterno. Non ci sarà un futuro migliore, anche questo ognuno lo sa. Ma è bello cedere a questo flusso, identificarsi nei segni di appartenenza. Viene la pelle d’oca.
Eppure anche questo è spettacolo per i turisti, per voyeur. Il domani per i cubani è solo resistere, per i turisti invece ecco qui la possibilità di ascoltare l’Internazionale intonata da mille voci, Socialismo o muerte, Venceremos, liturgie quasi sovietiche, ma messe in scena al Tropico, in clima di festa popolare privo di qualsiasi fosca tinta.
Poi, informale, colloquiale, Fidel, che era stato lì a parlottare, ritorna sulla tribuna. Per spiegare la questione dei papelitos. Dovevano essere lanciati alla fine, dice, ma qualcuno ha dato l’ordine al momento sbagliato, un errore o un sabotaggio, parla con tono scherzoso, ma anche duro, bacchettando gli organizzatori e allo stesso tempo approfittando dell’occasione per lusingare ancora una volta la folla: “Mai un Primo Maggio come questo, la più grande affluenza mai registrata nella storia della Rivoluzione…”.
Per terra coni di carta vuoti (contenevano noccioline), cicche di sigaro, bandierine di carta. Scatoloni ancora chiusi, pieni di bandierine con le strisce le la stella solitaria, appaiono alla vista in luoghi strategici, accanto ai tralicci degli impianti di amplificazione, ai lati della piazza. Passanti prendono bandierine da cartoni aperti, ragazzini in rigorosa uniforme escolar prendono bandierine a mazzi, altri ragazzini si portano via in spalla cartoni interi.
La folla sciama lentamente, in ordine sparso. Dagli altoparlanti una canzone di Silvio Rodríguez, credo, o di Pablo Milanés. Una donna bianca, di una certa età, balla da sola. E’ cubana, credo. Stranieri sono invece militanti per esempio biondi con la coda di cavallo, così orgogliosi di essere lì, mostrano familiarità con cubani, immagino sindacalisti, o impegnati nell’organizzazione, provo fastidio per il tono deferente che i cubani mostrano nei confronti di questi stranieri che fanno l’onore di essere lì.
Ma niente mi colpisce come un gruppo che sta lì impalato, immobile, in fondo alla piazza, dalla parte del Museo della Posta. Felici di esibirsi mantengono alto uno striscione, Suiza saluda a Cuba, è pura pop art, immagino l’opera in un museo d’arte moderna, non un gesto, sguardo fermo ma vitreo eppure segnato dall’orgoglio di essere qui, a sostenere lo striscione, da un lato una signora anziana, dall’altra un ragazza, e poi ancora a comporre il quadro un’altra donna giovane, due uomini, come statue di cera, perfettamente abbigliati con sfoggio di rosso, gonne e maglie e sciarpe, baschi accuratamente messi di traverso, immagini del Che.
Un turismo che offre anche questo, l’ultimo lembo di socialismo realizzato, un luogo da visitare come un parco tematico dedicato a un futuro che non ha avuto luogo. Luogo che conviene visitare in treno, i treni arrivano dovunque, ma ai turisti non lo si dice perché le carrozze ferroviarie e ancor più le locomotive sono vetuste e il viaggio è lentissimo e moderno è invece il bus.
Starà nel materiale di propaganda dei tour operator o nelle guide, questa celebrazione per sempre del primo maggio.
Un gruppo di partecipanti se ne va accennando passi di danza, al suono di un tamburo.
Camion carichi di gente tornano verso i quartieri.
Pedoni si affollano attorno a un’autobotte di acqua potabile.