Qualche giorno fa mi è capitato di imbattermi nei filmati dell’ultima sfilata di Giorgio Armani, la collezione conclusiva disegnata dal maestro prima della sua scomparsa, lo scorso 4 settembre. Guardandoli, sono rimasto sorpreso dalla forza che quelle immagini sprigionano. Non soltanto per la raffinatezza delle linee, per l’eleganza sobria e intramontabile degli abiti — veri oggetti d’arte, destinati a diventare testimonianze materiali di un’eredità culturale — ma per ciò che suggeriscono oltre la superficie del tessuto: un fitto intreccio di conoscenze sedimentate, un patrimonio di gesti precisi, intuizioni maturate nel tempo, decisioni microscopiche che insieme costruiscono la perfezione.
Dietro ogni cucitura impeccabile non ci sono soltanto ago e filo, ma anni di disciplina artigianale, di osservazione paziente, di trasmissione silenziosa di saperi. Ogni dettaglio racconta un lessico tecnico condiviso, ogni scelta rimanda a un pensiero raffinato che ha attraversato generazioni di mani esperte. In questo senso, un abito non è mai soltanto un abito: è un concentrato di memoria, cultura e intelligenza collettiva che prende forma nella materia. Quella stessa conoscenza che trasfigura un capo d’alta moda in opera d’arte è la medesima che, in forme meno appariscenti ma non meno decisive, accompagna le nostre vite quotidiane.
È la conoscenza che ci consente di orientarci nei piccoli e grandi dilemmi dell’esistenza: quando, immersi nel traffico, ci chiediamo se riusciremo a saldare quella bolletta a fine mese; quando valutiamo un’occasione di lavoro che potrebbe cambiare la nostra vita; quando cerchiamo di costruire, passo dopo passo, il futuro che meritiamo.
Essa scorre, silenziosa ma potente, come un filo invisibile che lega il mondo dell’eccellenza artigianale e industriale — ciò che nel mondo riconoscono come made in Italy — alla trama concreta delle nostre scelte quotidiane. Riflettere sull’economia della conoscenza significa proprio questo: comprendere come quel patrimonio immateriale di idee, competenze e pratiche sia in grado di plasmare tanto un abito da passerella quanto le architetture sottili delle nostre vite. È un capitale che non si vede, ma che costruisce tutto ciò che davvero conta.
La conoscenza non è un semplice accumulo di informazioni. Un dato, da solo, è come una pietra grezza: esiste, ma non racconta nulla. Diventa conoscenza solo quando la mente umana lo interpreta, lo collega ad altri elementi e lo trasforma in orientamento per l’azione. È un tessuto vivo fatto di teorie e pratiche, di saperi espliciti — codificati in manuali, procedure, modelli matematici — e di saperi taciti, sedimentati nei gesti esperti di chi lavora e risolve problemi.
È un linguaggio comune che consente di comprendere e collaborare, un insieme di domande che aprono nuove strade, di strumenti che ampliano le nostre possibilità, di abitudini mentali che si consolidano con l’esperienza. Senza questo intreccio invisibile e dinamico, nessuna tecnologia, per quanto avanzata, avrebbe senso: resterebbe un insieme di strumenti muti in attesa di qualcuno capace di usarli e comprenderli.
Per secoli il valore economico è stato legato a fattori materiali: la terra da coltivare, le macchine da costruire, il capitale da investire. Ma in ciascuno di questi elementi la conoscenza è sempre stata presente, anche se nascosta. Sta nelle tecniche agricole che aumentano i raccolti, nei progetti degli ingegneri che danno forma alle macchine, nelle regole giuridiche che disciplinano i contratti. Oggi questa presenza è diventata protagonista. I beni materiali contano ancora, ma il loro valore deriva sempre più dalla conoscenza che contengono, da quanto sanno adattarsi, dialogare e risolvere problemi complessi.
La conoscenza ha caratteristiche uniche rispetto agli altri fattori produttivi.
La conoscenza ha caratteristiche uniche rispetto agli altri fattori produttivi. Prima di tutto è non rivale: se uso un macchinario ne limito l’uso ad altri, ma se uso una conoscenza essa rimane disponibile per chiunque. Inoltre è cumulativa: ogni nuova scoperta costruisce sulle precedenti e ne aumenta il valore. Infine ha costi marginali bassissimi: produrre un motore richiede materiali, energia e lavoro; replicare un algoritmo quasi nulla.
Queste proprietà spiegano perché l’economia della conoscenza cresce con una rapidità senza precedenti. Le idee, una volta nate, possono diffondersi ovunque, generare altre idee, trasformare settori interi. Ma spiegano anche le profonde disuguaglianze che questa economia produce: dove la conoscenza si accumula e si trasmette, si crea sviluppo; dove si disperde o rimane chiusa, si genera arretratezza. È il motivo per cui i Paesi con un sistema educativo debole o incapaci di trattenere talenti faticano a tenere il passo.
L’Italia rappresenta un caso emblematico di questa dinamica. Per decenni il nostro Paese ha prosperato grazie a un patrimonio diffuso di saperi, spesso non scritti: l’artigianato, il design, la capacità di mettere insieme competenze diverse nella manifattura. È questo capitale invisibile — più dei capannoni o del denaro investito — ad aver reso grande il “made in Italy”. Oggi, però, la rivoluzione digitale e l’avanzata dell’intelligenza artificiale impongono una trasformazione: dobbiamo riuscire a esplicitare quei saperi, a condividerli, a fonderli con strumenti tecnologici senza smarrirne l’essenza.
Non si tratta di sostituire l’uomo con la macchina, ma di farli lavorare insieme. Le intelligenze artificiali non “pensano” come noi, ma possono riconoscere schemi nascosti nei dati, simulare scenari complessi, suggerire soluzioni che l’occhio umano non vedrebbe. Diventano strumenti potenti solo se chi le utilizza sa porre le domande giuste, interpretare criticamente le risposte, inserirle in una strategia coerente. La loro efficacia dipende, in ultima analisi, dalla qualità della conoscenza umana che le guida.
La vera sfida è trovare un equilibrio tra ciò che va condiviso e ciò che va protetto perché rappresenta un vantaggio competitivo.
Da questa consapevolezza nasce una riflessione più profonda sul valore stesso. Poiché la conoscenza è un bene che può essere condiviso senza esaurirsi e che cresce con l’uso, la sua diffusione può generare più sviluppo della sua chiusura. Tuttavia, non tutto deve essere aperto: alcune conoscenze hanno valore proprio perché sono specifiche e strategiche. La vera sfida è trovare un equilibrio tra ciò che va condiviso — come standard tecnici, linguaggi comuni, infrastrutture di base — e ciò che va protetto perché rappresenta un vantaggio competitivo.
Per le imprese, la prima mossa è rendere osservabili i propri processi. Non si può migliorare ciò che non si conosce. Servono strumenti per misurare il tempo necessario a correggere un errore, per capire quanta esperienza tacita diventa esplicita, per valutare la qualità dei dati raccolti. Questi indicatori non sono burocrazia: sono strumenti di orientamento.
Il secondo passo è curare le interfacce, cioè i punti di contatto tra mondi diversi. È spesso ai confini — tra reparti, tra fornitori e committenti, tra produzione e mercato — che la conoscenza si blocca. Qui servono protocolli comuni, glossari condivisi, linguaggi coerenti. L’intelligenza artificiale amplifica ciò che le forniamo: se i dati e le parole d’ingresso sono ambigui, anche le risposte lo saranno.
Infine, è indispensabile coltivare l’arte di porre domande. Nessuna tecnologia può sostituire la capacità umana di formulare ipotesi, esplorare alternative e definire vincoli. La conoscenza cresce quando si mettono in discussione le proprie certezze, quando si accettano gli errori come parte del cammino. Qui la formazione torna centrale, non come semplice trasmissione di nozioni, ma come educazione al pensiero critico e creativo.
Tutto ciò comporta anche una diversa idea di qualità. In economia si tende a misurare le medie, ma nella conoscenza conta la varianza: un’intuizione straordinaria può valere più di dieci idee mediocri. Per questo le organizzazioni più innovative costruiscono vere e proprie catene di qualità cognitiva: stabiliscono standard per i dati, revisionano le procedure, controllano le decisioni automatizzate, conservano archivi di casi e soluzioni. Non è burocrazia, è manutenzione dell’intelligenza collettiva.
L’economia della conoscenza non è una moda passeggera: è un cambio di paradigma. Sposta il centro del valore dal possesso alla capacità, dal prodotto al processo, dal capitale accumulato al sapere condiviso. Richiede infrastrutture nuove, materiali e immateriali, ma soprattutto un cambio culturale: imparare a riconoscere il valore dove non si vede, a investire in ciò che non si può toccare, a misurare ciò che si trasforma in silenzio.
Il cammino non è semplice, ma l’Italia ha un vantaggio che pochi altri Paesi possiedono: un patrimonio di conoscenze stratificato nei secoli, fatto di scuole, botteghe, laboratori, archivi. È un capitale invisibile che può diventare motore di futuro, se sapremo non disperderlo, non trattarlo come un residuo del passato e non ridurlo a slogan.
La conoscenza, come ogni capitale, cresce solo se si investe in essa. E l’investimento più importante, oggi, non è forse nell’ennesima macchina più veloce, ma nella costruzione paziente di sistemi capaci di apprendere, collegare, interrogare e trasformare. È in questo terreno — l’economia della conoscenza — che si gioca la partita decisiva del nostro tempo.
Perché il libro di Enzo Rullani
Enzo Rullani è tra i principali economisti italiani che hanno esplorato il ruolo della conoscenza nella trasformazione del capitalismo contemporaneo. Professore di Economia della conoscenza e dell’innovazione presso la Venice International University e già docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha analizzato il passaggio da un’economia centrata su beni materiali a una fondata sul sapere diffuso, sulle reti e sulla capacità di apprendere collettivamente. La sua prospettiva, attenta alla dimensione qualitativa e culturale dei processi economici, ha influenzato sia le politiche industriali sia le strategie d’impresa, offrendo al dibattito pubblico italiano uno sguardo originale su come la conoscenza diventi infrastruttura produttiva e bene comune.