Go down

Un testo tratto dal mio ultimo libro 𝐍𝐎𝐒𝐓𝐑𝐎𝐕𝐄𝐑𝐒𝐎 -𝐏𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐥 𝐌𝐞𝐭𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐨.

La vera sfida del futuro non è tecnologica, non si annida nelle intelligenze artificiali o nei metaversi, sta dentro la vita biologica e psichica reale, è rappresentata dalla comunità di persone che la abitano, dalla loro capacità di immaginare futuri e costruire il divenire attraverso la prassi. Il benessere di tutti non può nascere da algoritmi che ne quantificano misurandoli livelli di felicità e gradi di soddisfazione individuali. Nasce dall’aderenza a ideali di felicità e giustizia comuni, dalla qualità delle relazioni, dal rapporto profondo da preservare in quanto favorevole alla vita umana che si riesce a stabilire con gli altri, con la natura e con l’ambiente, dal senso che riusciamo a dare alle cose, ai fatti e alle nostre esistenze.


In un mondo autocompiaciuto e insensibile, andato fuori asse e senza alternative, come diceva Bauman, viviamo tutti su una soglia il cui passaggio apre a prospettive tra loro diverse, non necessariamente digitali o migliori, mostra orizzonti pieni di crepe nei quali alla fine tutto potrebbe essere lo stesso ma solo un po' peggiore[1]. Si presentano nella forma di interstizi brulicanti nei quali la nostra conoscenza è limitata dalla relazione che intercorre tra noi e gli strumenti usati, tra noi e l’informazione disponibile. Le crepe sono anche spirituali e psichiche, dentro di noi, si manifestano nell’incapacità a reagire per dare un senso alla nostra vita, ci impediscono di utilizzare tutte le nostre energie, superando lo scoraggiamento e la stanchezza, lo smarrimento e il cinismo, che ci lasciano preda della nostalgia senza trarne le necessarie conseguenze ed azioni.

Siamo tutti in affanno, alla fine di un ciclo, per alcuni durato cinquant’anni.

Siamo tutti in affanno, alla fine di un ciclo, per alcuni durato cinquant’anni. È tempo di lasciare spazio a nuovi paradigmi che obbligano ad abbandonare illusioni per impegnarsi in scelte non facili. Per riprendere la metafora di Michele Ciliberto, viviamo tempi in cui stiamo assistendo al crollo degli architravi del vecchio mondo per come lo conoscevamo, senza poter prevedere ciò che sta emergendo e nascendo. I nostri sono tempi di crepe e di rotture, di squarci e di vertigini, di perdita di concretezza, identità e solidità, di troppo presente e di vuoto di futuro, di crisi sistemiche e multidimensionali, globali e ricorrenti, caratterizzate, come direbbe Gramsci dal vecchio che sta morendo e dal nuovo che non può ancora nascere.

Tempi caratterizzati per molti da un’atmosfera da fine dei tempi (l’umanità è da sempre ossessionata dalla fine del mondo e dall’apocalisse e chissà che anche questa volta se la cavi…) nei quali tutto è diventato fluido, virtuale e artificiale.

Tempi che coinvolgono tutti (ri)chiamandoli all’innocenza e alla purezza, alla responsabilità, intesa come coscienza di sé e del proprio ruolo nel mondo, a una maggiore (tecno)consapevolezza e alla capacità di fare delle scelte.

Scelte libere e non omologate (coincidenti-con) alle narrazioni conformiste e superficiali, che oggi ci raccontano una realtà tecnologica e digitale come unica esistente, determinando un addestramento coercitivo volto a costringere alla sottomissione al pensiero dominante del momento. Come se fosse possibile gestire la complessità attraverso macchine discrete, capaci solo di reiterare l’identico, perché guai se un programma non facesse sempre la stessa cosa all’infinito. Macchine statistiche, riduzionistiche nel loro funzionamento binario (un termine che richiama i binari della ferrovia ma anche la rappresentazione cartesiana del mondo) e senza coscienza, incapaci di percepire e appercepire ciò che esiste dentro l’ambiente in cui sono collocate, non adattabili a macchine biologiche umane, che non possono essere assimilate come molti oggi fanno a una macchina, a un robot, a un computer, a un’intelligenza artificiale.

viviamo tempi in cui stiamo assistendo al crollo degli architravi del vecchio mondo per come lo conoscevamo, senza poter prevedere ciò che sta emergendo e nascendo.

Bisogna comunque prendere coscienza che stiamo andando verso un mondo freddo, disincarnato, virtuale, connesso ma scongiunto, automatizzato, computazionale, metabolicamente e psichicamente malato. Una megastruttura pervasiva, super-organizzata, ormai capace di agire su livelli e in ambiti disciplinari diversi, un Meccanocene[2] come evoluzione dell’Antropocene, che sta cambiando le sorti del genere umano sulla terra, al quale poco servirà proiettarsi nel cosmo con l’obiettivo di colonizzarlo (il riferimento è agli investimenti miliardari di tecnocrati come Elon Musk, Peter Thiel, Jeff Bezos, Paul Allen, Richard Branson e altri miliardari che si preparano al peggio).

L’universo che si va formando ha la forma di miriagono[3] come la rete di satelliti Starlink[4] che lo racchiudono e lo imprigionano dall’alto, ibridato tecnologicamente, anche nello spazio, mediato da sensori, software, chatbot e soprattutto da molteplici schermi sempre illuminati, freddi e molto tecnologici, che fanno da accesso ma anche da filtro, che impediscono lo sguardo empatico, la carezza, il contatto cinestetico e la vista. Un apparato universale e globale efficiente, ricco di dati e di informazioni ma poco trasparente, governato da potenti e sempre più autonomi algoritmi e da chi li possiede, dopo averli sviluppati al servizio della logica del mercato, una logica finalizzata all’ottimizzazione e massimizzazione del profitto.

L’algoritmo è diventato pervasivo, aspira all’infallibilità (transbio)logica, dispone di immense banche dati informazionali, ma soprattutto è sempre più capace di operare a partire dai fatti con effetti concreti sulla realtà e sul mondo.  Inutile provare a modellizzarlo per determinarne il funzionamento e i comportamenti senza avere prima compreso il funzionamento dei media, degli strumenti, dei meccanismi percettivi, cognitivi ed emotivi che lo fanno funzionare. Sbagliato ritenerlo neutrale. Come tutti gli apparati tecnologici attuali deriva da logiche e scelte mai neutre, che vengono fatte nel momento in cui si devono decidere ambiti di applicazione, problemi da risolvere, variabili da considerare per il suo funzionamento e risultato. Problemi posti, domande ad essi associate, risposte attese dipendono sempre da credenze, pregiudizi, finalità, convinzioni e immaginario di chi gli algoritmi li realizza e di coloro che li hanno commissionati pagandoli.

Il viaggio, il mio a cui accennavo all’inizio e quello di tanti altri, forse anche di voi che state leggendo, prosegue in un periodo di crisi, post-pandemico. Per l’eccessivo uso di strumenti online, ha visto aumentare la necessità di demitizzare i mondi digitali ed emergere il disincanto verso il virtuale, il bisogno di abbandonare l’esilio forzato a cui si è stati costretti per rientrare nel mondo. Il disincanto non è solo tecnologico e digitale. Esprime la stanchezza verso modelli sociali, lavorativi, economici, ecc. percepiti come non più in grado di soddisfare bisogni reali ed esprime il desiderio montante di modelli diversi, abbracciando modalità di esistenza più appaganti di quelle attuali. Racconta la complessità, l’esaurirsi di molte promesse, non solo tecnologiche, narrate in modo retorico e ideologico come progresso lineare continuo, asettico, benessere diffuso e prolungato, che in realtà si stanno rivelando come tante illusioni. Le cause sono l’appannamento di un (tecno)progresso, onniavvolgente e inarrestabile, illusoriamente mitizzato, il collasso e il disordine crescenti, il caos disperante che domina ovunque, l’incertezza e l’impotenza diffuse, la fragilità, il senso di precarietà e di sfinimento, le numerose disuguaglianze e le tante ingiustizie destabilizzanti. A tutto ciò si aggiunge la consapevolezza crescente che questo progresso, molto tecnologico, non è neutrale e neppure asettico, potrebbe avere imboccato una strada pericolosa, anche nel rispondere a interessi economici e rapporti di potere che hanno messo in mano a poche élite tecnologiche il destino del mondo.

Dentro il disincanto tecnologico molti stanno scoprendo, loro malgrado, l’impotenza dei tanti mezzi di comunicazione disponibili e decantati come strumenti ideali per farci uscire dall’isolamento. Una falsa verità. La comunicazione dell’era digitale è a senso unico, non favorisce il dialogo, anzi è da esso svincolata, presentando un elevato grado di irreparabilità e tossicità. Non coltiva la reciprocità, è sempre distaccata dalla fisicità di uno spazio e dalla carnalità di un corpo umano. L’impotenza che ne deriva è tanto più grande quanto più rumorose sono la narrazione e la celebrazione delle sue performance e abilità, quanto è smodata la facoltà nel praticarla.

Al progresso come linea retta molti provano oggi a contrapporre una visione del mondo complessa, fatta di loop continui e rigenerativi come quelli che si osservano in natura, capace di abbracciare dentro di sé anche i concetti di linearità e progresso trasformandoli. Come ha scritto Douglas Rushkoff:  “il grande schema non è una linea né un cerchio ma una spirale, con la storia che non si ripete mai identica ma che ritorna su sé stessa mentre avanza nel tempo[5]”.

La vita trasferita online è diventata facile preda di apparati che, facendoci credere di vivere in un Paese dei balocchi, sono diventati motori potenti di dipendenze, solitudini, grandi illusioni e altrettanto false speranze, di disturbi psichici e crudeltà relazionali. Questi apparati assorbono la vita di molti corrompendola, ne corrodono la memoria e le emozioni disintegrando le relazioni sociali, facendo prevalere l’avere sull’essere, il prendere sul dare e il regalare, il risentimento e l’invidia sull’indulgenza e sul distacco. Il malessere generato dalla percezione della perdita di autonomia fa emergere un disincanto crescente che suggerisce di valutare criticamente la nozione di progresso continuo, rivalutando l’importanza di una conoscenza incarnata[6], di esseri umani carnali (esseri incarnati) dotati di un corpo materiale che deve essere riattivato. Un corpo ricoperto di pelle umana, caratterizzato da un volto con le sue rughe e i suoi segni che sono l’archivio di chi siamo, da una voce come segno di un corpo e non semplice strumento di comunicazione mediale, dallo sguardo che ci permette di sentire e fare esperienza relazionale (cooperativa) del mondo. Con gli occhi persi dentro uno schermo online “[…] i corpi con la loro consistenza, le loro pulsioni, i loro desideri e l’insieme di quei micro-gesti che sfuggono ai radar della nostra percezione, vengono ignorati[7]”. Gli umani vogliono essere ricordati e un modo per esserlo è di rammentare che noi siamo quello che siamo per gli altri con i quali siamo sempre collegati, ontologicamente collegati. Ci co-evolviamo relazionandoci con altri, con cui continuiamo a ibridarci, siano essi altri viventi o artefatti macchinici, come cyborg o robot, macchine che oggi si autodefiniscono come capaci di interagire socialmente e di offrire esperienze educative simili a quelle umane.

Ad avere maggiore bisogno di corpo, di presenza, di relazione fisica con le persone, cinestetica con l’ambiente (ambiens-entis, ambire, andare intorno, circondare) che ci circonda, con la natura e i suoi habitat, sono le nuove generazioni. Ne hanno un bisogno emergente, più grande di quanto oggi riescano a immaginare. Il bisogno suggerisce la ricerca di maggiore conoscenza e consapevolezza su una società multisensoriale contemporanea, dominata da artefatti tecnologici e strumenti digitali che sono anche cognitivi. Come tali capaci di mescolarsi alla quotidianità, di interagire, cogliere e interpretare il vissuto, di cambiarlo. Le nuove generazioni, intrappolate dentro una triste e manipolatoria narrazione che le racconta come aspiranti a diventare influencer, fondatrici di startup e abili imprenditrici di sé stessi, sono chiamate a ribellarsi all’ignoranza e alla stupidità diffuse, a immaginare e costruirsi futuri possibili da sentire propri, in primo luogo in ambito lavorativo e professionale, ma anche esistenziale, sociale e civile.

La vera sfida del futuro non è tecnologica, non si annida nelle intelligenze artificiali o nei metaversi, sta dentro la vita biologica e psichica reale, è rappresentata dalla comunità di persone che la abitano, dalla loro capacità di immaginare futuri e costruire il divenire attraverso la prassi. Il benessere di tutti non può nascere da algoritmi che ne quantificano misurandoli livelli di felicità e gradi di soddisfazione individuali. Nasce dall’aderenza a ideali di felicità e giustizia comuni, dalla qualità delle relazioni, dal rapporto profondo da preservare in quanto favorevole alla vita umana che si riesce a stabilire con gli altri, con la natura e con l’ambiente, dal senso che riusciamo a dare alle cose, ai fatti e alle nostre esistenze.

La vera sfida del futuro non è tecnologica, non si annida nelle intelligenze artificiali o nei metaversi, sta dentro la vita biologica e psichica reale, è rappresentata dalla comunità di persone che la abitano, dalla loro capacità di immaginare futuri e costruire il divenire attraverso la prassi.

Note

[1] Citazione da una intervista di Houellebecq a HuffingtonPost del 5 maggio 2020

[2] Un’epoca geologica dominata dalle macchine, da ecosistemi ibridati tecnologicamente, mutanti nella loro forma e natura, sempre più avanzati tecnologicamente, nella quale il dominio omologante dell’uomo sulla natura si rivela controproducente e altamente entropico.

[3]Il miriagono (termine dalla derivazione greca: miriade, che significa 10000) è un poligono regolare con 10000 lati che a occhio nudo può sembrare una semplice circonferenza con lati così piccoli da essere simili a semplici puntini. Se ne parla anche in Flatlandia, testo di Edwin Abbot, come “cerchio primo”. Metafora di mondi multidimensionali.

[4] La rete di 4425 satelliti di proprietà di Elon Musk e messi in orbita tra i 1.00 e i 1.300 chilometri di altitudine.

[5] Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi, Luiss University Press, Milano 2023, Pag. 155

[6]Perché un’informazione diventi conoscenza occorre che si inscriva nel vissuto dei corpi”, M.Benasayag, B. Cany - Il ritorno dell’esilio, Vita e Pensiero, Milano 2022, pag.  34

[7] Miguel Benasayag, Bastien Cany, Il ritorno dall’esilio, ripensare il senso comune, Edizioni Vita e pensiero, - Milano 2022, Pag.14

StultiferaBiblio

Pubblicato il 15 ottobre 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

c.mazzucchelli@libero.it http://www.stultiferanavis.it

Citazione da una intervista di Houellebecq a HuffingtonPost del 5 maggio 2020

Un’epoca geologica dominata dalle macchine, da ecosistemi ibridati tecnologicamente, mutanti nella loro forma e natura, sempre più avanzati tecnologicamente, nella quale il dominio omologante dell’uomo sulla natura si rivela controproducente e altamente entropico.

Il miriagono (termine dalla derivazione greca: miriade, che significa 10000) è un poligono regolare con 10000 lati che a occhio nudo può sembrare una semplice circonferenza con lati così piccoli da essere simili a semplici puntini. Se ne parla anche in Flatlandia, testo di Edwin Abbot, come “cerchio primo”. Metafora di mondi multidimensionali.

 La rete di 4425 satelliti di proprietà di Elon Musk e messi in orbita tra i 1.00 e i 1.300 chilometri di altitudine.

Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi, Luiss University Press, Milano 2023, Pag. 155

Perché un’informazione diventi conoscenza occorre che si inscriva nel vissuto dei corpi”, M.Benasayag, B. Cany - Il ritorno dell’esilio, Vita e Pensiero, Milano 2022, pag.  34

Miguel Benasayag, Bastien Cany, Il ritorno dall’esilio, ripensare il senso comune, Edizioni Vita e pensiero, - Milano 2022, Pag.14