Epistemologie dell’integrazione profonda. Conoscenza, potere e responsabilità nell’epoca biodigitale

Nel corso della mia attività con la pubblica amministrazione, ho contribuito alla progettazione di sistemi documentali aperti, tra cui la piattaforma PAFlow. Non si trattava semplicemente di digitalizzare il cartaceo, ma di ripensare le condizioni stesse della trasparenza e della responsabilità pubblica. Ogni decisione doveva essere tracciabile, ogni passaggio verificabile, ogni codice leggibile. La scelta dell’open source non fu un vezzo tecnico, ma una scelta politica: l’idea che la conoscenza amministrativa sia un bene comune, e che il codice che la struttura debba restare accessibile, modificabile, condiviso. L’altro giorno mi è capitato di sorridere leggendo l’ennesimo articolo trionfalistico sull’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione. L’entusiasmo era palpabile, ma il contenuto inesistente: si parlava vagamente della possibilità di usare l’IA per valutare i curriculum dei dipendenti pubblici, per identificare i più “adatti” a svolgere non si sa bene cosa. Nessuna riflessione sul fatto che un CV scritto male possa portare un algoritmo a scartare una persona competente. Nessuna considerazione sulla dimensione motivazionale, relazionale, umana che è indispensabile nei contesti pubblici. Solo la solita narrazione ansiogena dell’efficienza algoritmica, accompagnata dal coro dei “fuffa-guru” di LinkedIn, gli stessi che fino a ieri vendevano aria di Napoli in bottiglia e oggi propongono corsi su IA con lo stesso fervore da televendita di fanghi alle alghe. Viviamo in un’epoca in cui la produzione di conoscenza è diventata un campo di battaglia invisibile. Parlare di epistemologia — ovvero di come costruiamo e legittimiamo il sapere — è oggi un atto politico. L’articolo che segue nasce da questa consapevolezza. Perché integrare davvero significa anche destabilizzare: affrontare i conflitti tra saperi, riconoscere le esclusioni, decidere da che parte stare.

Resilienza senza alibi: dal caos ritualizzato alla competenza collettiva

Resilienza nei team di progetto non è resistere agli urti, ma trasformare l’incertezza in conoscenza operativa. Provo a spiegare il mio punto di vista su come linguaggi, pratiche riflessive, regia temporale, leadership diffusa e sostenibilità organizzativa rendano un gruppo capace di apprendere mentre agisce. Dal caso software alla pubblica amministrazione, emerge un metodo per metabolizzare errori e vincoli, evitando la retorica “agile” senza sostanza. La resilienza diventa igiene del discorso, governo dei ritmi, cura dell’energia collettiva. Una critica al tecnicismo vuoto e alla resilienza di facciata chiude il quadro, con il suggerimento all'uso di metriche che misurino apprendimento, cooperazione e debito di resilienza permanente accumulato, per migliorare veramente.

Costituzione vs. Algoritmo: Chi Scrive le Regole del Nostro Futuro

Il Leviatano Digitale: Come Riscrivere il Patto Sociale Prima che sia un Codice a Farlo per Noi. Immaginiamo una scena, non più relegata alla fantascienza. Un candidato politico, nel mezzo di una campagna elettorale serrata, viene travolto da un video virale in cui pronuncia frasi sconnesse e offensive. Il video è un deepfake, un falso quasi perfetto, ma il danno all’autorevolezza e alla fiducia è reale e immediato.1 Ora immaginiamo un’altra scena, più silenziosa ma non meno insidiosa. Un’azienda implementa un nuovo algoritmo per le assunzioni, celebrato come un trionfo di efficienza e oggettività. Mesi dopo, si scopre che il sistema scarta sistematicamente le candidature femminili, avendo “imparato” a replicare i pregiudizi presenti nei dati storici con cui è stato addestrato.

Siamo Davvero Liberi di Non Scegliere?

La Grande Illusione: Quando l’Indifferenza Cede il Passo al Controllo La sveglia suona alle 6:30. Occhi ancora chiusi, allunghi la mano verso lo smartphone. Un gesto automatico, quasi inconsapevole. Non sai che in quel preciso momento, un algoritmo ha già analizzato il tuo sonno, previsto il tuo umore e selezionato le notizie che leggerai durante la colazione. Non ci pensi, non ti interessa. È solo tecnologia che funziona, giusto?

Sulle orme del selvatico: una riflessione sul gesto e la conoscenza

La conoscenza, nelle organizzazioni, è spesso trattata come un bene archiviabile, misurabile, replicabile. Ma il sapere più rilevante – quello che guida le scelte, riconosce gli scarti, risponde all’imprevisto – emerge in contesti situati, attraverso gesti che integrano memoria ed esperienza. In questo articolo esploro un’analogia tra il gesto dell’osservazione naturalistica e quello della conoscenza operativa: due forme di attenzione che non si affidano al linguaggio esplicito, ma alla capacità di percepire relazioni, leggere segnali, agire con misura. Una riflessione sull’ecologia del sapere, per tornare a pensare le organizzazioni come sistemi viventi, non solo macchine informative.