Prefazione
“Sembra di essere in trappola. Durante la misère del lockdown del 2020 ci siamo ritrovati letteralmente impantanati nella piattaforma.” – Geert Lovink, La palude della piattaforma, Edizioni Nero, Roma 2023, Pag. 7
“Non parlo di null’altro che dell’uomo quale veramente è, di voi e di me, della nostra vita e del nostro mondo, non di un Io in sé stesso o di un Essere in sé stesso” - Martin Buber, L’io e il tu (1923, Pag. 86)
In viaggio
Mi sono avvicinato per la prima volta alle tecnologie dell’informazione nel 1984. Mi ero trasferito a Rochester nel Minnesota (USA), per un soggiorno, durato un anno, dedicato alla conoscenza della computer science attraverso lo studio di sistemi operativi, piattaforme e linguaggi di programmazione. Da lì è iniziata per me una nuova vita che si è trasformata in un lungo viaggio, anche a ritroso nel tempo, fortunatamente non ancora terminato, ricco di esperienze professionali e lavorative, di incontri, di studi, di innovazione continua, di costanti apprendimenti e aggiornamenti. Un viaggio in termini di ricerca, conoscenze, (auto)formazione, letture, fatti più o meno importanti, eventi (con Nicholas Negroponte e Arthur Middleton Hughes ad esempio), sperimentazioni e iniziative. Il tutto sempre accompagnato dalla necessità di vivere consapevolmente, di capire e approfondire, mosso dal senso di urgenza personale, molto filosofica, di comprendere la logica, i linguaggi e la natura delle tante rivoluzioni tecnologiche vissute in prima persona, per diventarne maggiormente consapevole, per fare scelte responsabili nella vita professionale così come in quella privata, sociale e politica, relazionale e personale.
Erano i lontani anni Ottanta
Gli anni Ottanta come data di inizio del mio viaggio non potevano non essere più fortunati, anticipatori come sono stati di un rinascimento tecnologico, che sembrava non avere limiti nell’esercizio dell’immaginazione umana collettiva di quanti scoprivano le potenzialità delle nuove tecnologie. Nei college e nelle università americane prevalevano i sistemi Vax PDP-8 della Digital e i mainframe IBM, ma l’attenzione e l’entusiasmo dei giovani erano rivolti ai primi personal computer (il primo Macintosh[1] con un’interfaccia GUI di Apple è del 1984, nel 1981 Xerox aveva introdotto lo Xerox Star) con le loro directory, mouse e linguaggi “basic”, ai primi walkman, al sistema operativo Unix, ai protocolli TCP/IP per la trasmissione dati (che si impose poi come standard sui protocolli privati come SNA di IBM o altri come X.25 e ISO/OSI) e a linguaggi evoluti come il C, alla realtà virtuale e ai sistemi aperti di intelligenza artificiale che muovevano i loro primi passi in quegli anni. La cultura informatica del tempo era improntata al rifiuto dell’approccio gerarchico e burocratico, alla condivisione (shareware), al servizio e alla (in)formazione.
Più del denaro e della monetizzazione importavano le opportunità e il caos creativi, le macchine come strumenti per vivere sogni replicabili all’infinito, le utopie libertarie (Xanadu fu una di queste) e la controcultura, il desiderio di emancipazione e di cambiare il mondo, le sperimentazioni per allargare gli orizzonti e la mente, anche facendo parte di comunità di nerd nelle quali riconoscersi (The Well la più famosa, le T.A.Z. di Hakim Bey: The Temporary Autonomous Zone, ecc.), il formarsi del cyberspazio intorno a una Internet percepita come rizomatica, libera e democratica, staccata dalla Arpanet sviluppata per motivi militari. La rete Internet, nel frattempo, grazie alle intuizioni di Vannevar Bush (il suo testo “As we may think” anticipò molte delle tecnologie a venire: personal computer, ipertesto, Internet, world wide web, enciclopedie online e molto altro), all’ipertesto di Ted Nelson e al lavoro dell’informatico inglese Tim Berners-Lee, si era trasformata nel World Wide Web (il primo sito web è del 1991).
Nello stesso anno Linus Torvalds condivide con una comunità di programmatori un sistema operativo aperto chiamato Linux, che per la sua filosofia diventerà il capostipite di una nuova generazione di software definito come free software, riprendendo la terminologia del movimento politico (copyleft) creato dall’hacker Richard Matthew Stallman, che proponeva di trasformare ogni programma informatico o algoritmo in un bene comune per un suo uso civico (per inciso free software non va confuso con open source dal carattere espressamente utilitaristico e commerciale).
Da Linux nel 2004 deriverà Ubuntu (composta dalla radice -ntu, cioè umano e dal prefisso dei nomi astaratti ubu-), un sistema operativo il cui nome richiama l’etimologia di una parola africana bantu e la credenza che esista un legame capace di unire tutta l’umanità, collegando tra di loro tutti i membri della comunità umana. In questo significato il termine era spesso usato da Nelson Mandela e Desmond Tutu per suggerire un movimento di rinascimento in grado di far fiorire il continente africano.
Poi vennero gli anni Novanta
Dentro questa cultura nel 1996, durante il forum dei grandi della terra di Davos, è nato il manifesto per l’indipendenza del cyberspazio. Scritto di getto da John Perry Barlow (amante della tecnologia, autore di brani musicali psichedelici per i Grateful Dead e cresciuto nella cultura degli anni Sessanta, epoca dei figli dei fiori, della contestazione e dell’LSD), il manifesto (Declaration of the Indipendence of Cyberspace[2]) è stato il canto del cigno della Internet sognata dalle comunità di ingegneri che pensavano di poter fare a meno di “re, presidenti e voto”, a favore di un consenso informativo basato sulla codifica, sull’adattamento passivo e sul codice. Il sogno di molti si è trasformato in disillusione, per alcun in distopia, nella percezione che il futuro non sarebbe stato quello alternativo, libero e autonomo immaginato.
Da allora molto è cambiato, sono crollate molte utopie ed è svanito lo spirito rinascimentale che faceva da incubatore per ogni novità.
Da allora molto è cambiato, sono crollate molte utopie ed è svanito lo spirito rinascimentale che faceva da incubatore per ogni novità. La controcultura cyborg e psichedelica vissuta come avventura esistenziale ha lasciato il posto alla ricerca sfrenata di consumo e di profitto, che ha trasformato le persone in consumatori, gli individui in utenti, i cittadini in sudditi o complici.
La rete rizomatica dalle prospettive libertarie, che si opponeva a forme organizzative strutturate in modo gerarchico e verticale, ha perso la sua carica oppositiva e antagonista, diventando di fatto la forma rete dominante della modernità neoliberista. Alle utopie future da costruire sono subentrate piattaforme già realizzate grazie agli investimenti di Business Angels, che hanno favorito la crescita di startup oggi molto attive nell’impedire con la loro (pre)potenza che altre possano nascere, diffondersi e prosperare, generando sempre nuove piattaforme, oggetti molto complessi oggi finalizzati all’estrattivismo come lo erano le piattaforme petrolifere di un tempo.
La fuga verso queste piattaforme digitali, che promuovono confort, libertà, trasparenza, divertimento e libertà, ha visto crescere mondi distopici dai quali è diventato impossibile fuggire. L’impossibilità della fuga ha generato incertezza e perdita di fiducia nel futuro, due elementi che caratterizzano la società liquida e sotto assedio di cui parlava Bauman e dalla quale derivano molte delle infelicità contemporanee.
La storia avrebbe potuto essere diversa, la tecnologia pure.
La storia avrebbe potuto essere diversa, la tecnologia pure. Ne è una testimonianza quanto tentato dai cosiddetti Santiago Boys che durante il governo di Allende in Cile si proposero di creare un ordine tecnologico mondiale alternativo e più giusto che, se non ci fosse stato il colpo di stato del 1973, avrebbe potuto anticipare e impedire lo sviluppo della Silicon Valley delle multinazionali tecnologiche e private che oggi governano il mondo. L’idea era di dare forma a una visione tecnologica socialista, capace di agevolare uno sviluppo collettivo per una industrializzazione e uno sviluppo economico più equo e solidale, resistendo ai ricatti delle multinazionali straniere e capace di difendersi da fattori geopolitici che mettevano in difficoltà la sovranità, anche tecnologica di un paese. Quell’idea non si realizzò mai, l’11 settembre del 1973 il governo di Allende fu vittima di un golpe che fermò il tempo in Cile e in molti altri paesi del mondo lasciando campo aperto ad altri boys, quelli di Chicago che con le loro politiche neoliberiste hanno portato al mondo attuale, globalizzato, molto tecnologico, ma anche molto disuguale e meno democratico.
Un’altra testimonianza che la tecnologia avrebbe potuto avere sviluppi diversi richiama il manifesto di Barlow. Un manifesto di cui nessuno si ricorda più, che forse non interessa neppure più, che oggi non raccoglierebbe neppure molti MiPiace. L’impatto trasformativo della tecnologia è stato asservito a poteri economici collusi con le tecno-burocrazie, con gli apparati militari degli stati, con l’economia finanziaria e con la politica. Le T.A.Z., spazi liberi, anarchici e nomadi, fatti di singolarità e autonomia, da spazi liberi, democratici ed esistenzialmente vissuti, sono stati conquistati, occupati, colonizzati cognitivamente e usati in funzione commerciale.
La Internet libera e democratica non c’è più, la rete universale e aperta, che doveva unificare il mondo eliminando i confini, si è nel tempo divisa in protettorati ben difesi da recinti e confini (un esempio su tutti il Great Wall costruito dalla Cina per un controllo ferreo sugli accessi), integrando le persone nelle loro regole e operazioni. La Internet regno della libertà di parola e di opinione si è trasformata in un confessionale a cielo aperto, in un non luogo (Marc Augè) nel quale i diritti civili si sono evaporati, compensati alla grande dai consumi.
La Internet comunitaria è diventata una gabbia skinneriana sulla quale opera il sistema di controllo individuale e sociale più potente mai realizzato nella storia dell’umanità. La comunità conversazionale decantata dal Cluetrain Manifesto, diventato la bibbia della Blogosfera, si è dissolta, separata, depotenziata e disgregata, sostituendo alle relazioni sociali incarnate dei semplici simulacri, online e per di più monetizzati.
Le crisi di inizio millennio
La crisi delle dot.com dei primi Anni Duemila ha determinato la fine della rivoluzione della Internet delle startup (oggi sempre assorbite da aziende monopolistiche per toglierle dal mercato), poi sono arrivate le grandi piattaforme proprietarie che hanno "finanziarizzato" Internet, evidenziando il cambio di paradigma in ambito tecnologico. Da tecnologie vicine alle persone e al mondo reale, si è passati a tecnologie spinte al massimo, per coinvolgere utenti e utilizzatori in modo da fare soldi, generare potere attraverso i fatturati, i pacchetti azionari e i profitti. In pochi anni tutto si è uniformato e contemporaneamente è diventato confuso. Le parole sono state manipolate semanticamente, il verosimile ha sostituito il reale, la realtà ha finito per essere sostituita dalle sue narrazioni, che sono diventate infinite e per nascondere la verità dei fatti.
Lo racconta molto bene la retorica del bene comune digitale, della Rete partecipazionista e ugualitaria, orizzontale, omofilica, in tempi che vedono eclissarsi la privacy, aumentare la trasparenza e il controllo, scomparire il bene comune insieme alla società civile, diffondersi la gestione gerarchica che mira all’obbedienza, da moltitudini subita passivamente in modo apatico, afasico e complice, con grande e diffusa deresponsabilizzazione. Il surplus informativo non risparmia narrazioni celebrative delle tante esperienze comuni rese possibili dalla tecnologia, ma sembra incurante del fatto che il bene comune, come ha scritto Maurizio Maggiani è “Uno spettro che si aggira per l’Europa […] ciò che un tempo è stato un corpo, solido, tangibile, vivente […]” è oggi completamente svuotato di significato, tanto si sono approfondite le disuguaglianze e le ingiustizie e tanto si è persa ogni memoria di un vivere comunitario che, anche in Rete, sembra ormai parte dell’archeologia del tempo presente. La rottura che ne è derivata è un evento reale, ben nascosto dalle narrazioni correnti. Dovrebbe, al contrario, coinvolgere tutti in una riflessione comunitaria, che ci faccia ritornare sulla terra e dall’esilio nel quale ci siamo rifugiati da tempo online, per provare a ripensare il bene comune.
Queste narrazioni accettate acriticamente da folle vocianti di persone accondiscendenti, ignoranti dei processi e dei meccanismi che rendono possibili le loro esperienze online, celebrano le esperienze utente come libere e democratiche, presupponendo che gli strumenti offerti gratuitamente siano per loro natura neutrali, liberi e democratici. Cosa che non è più vera, neppure narrativamente sostenibile, tanto si è ristretto il nesso tra vita umana e vita artificiale e si è imposto il modello tecno-capitalistico e globalizzato, fondato sulla rivoluzione digitale. Come ha spiegato magistralmente Umberto Galimberti, la tecnica (Galimberti usa sempre questo termine per parlare dell’universo dei mezzi – le tecnologie – sia la razionalità che presiede il loro impiego) ha smesso di essere semplice strumento, da mezzo si è fatto fine, si è resa disponibile per raggiungere qualsiasi fine, mutando qualitativamente lo scenario, da strumento la tecnica è diventata un mondo e si sostituisce all’uomo che nel nuovo scenario “può scegliere solo all’interno delle possibilità che la tecnica rende disponibili[3]”.
“ingaggiati, coinvolti, fidanzati con la realtà, persone che pensano sé stesse come fidanzate con il proprio tempo, inscritte in un rapporto sentimentale con il proprio presente”
Alle moltitudini che si sono accodate alle narrazioni conformistiche di turno, si contrappone un’esile schiera di persone “normali”, di attivisti e intellettuali, scrittori, scienziati e filosofi, femministe e rappresentanti della comunità LGBTQ+, che insistono nell’alimentare la riflessione critica, collocandosi dentro una tradizione di pensiero critico, sempre attivo e mai domato, che punta a dare voce a ciò che molte persone ossequiose percepiscono, sentono e sperimentano, senza avere il coraggio di rompere gli schemi e le narrazioni dominanti. Narrazioni che insistono sull’inalterabilità e inevitabilità delle nostre vite onlife, sempre più controllate e amministrate. Sono intellettuali, ma anche semplici cittadini, che non hanno paura di essere presi di mira per le loro idee, che rompono il conformismo diffuso per denunciare gli abusi del potere, la disinformazione dilagante, le false verità e l’irresponsabilità dei governanti, nella convinzione che chi ha voce debba impegnarsi su ciò che accade nel mondo.
Per usare una bellissima descrizione di Michela Murgia[4], una vera intellettuale da poco scomparsa, questi intellettuali (cittadini) sono persone che, rispolverando il francese, si sentono engagè, “ingaggiati, coinvolti, fidanzati con la realtà, persone che pensano sé stesse come fidanzate con il proprio tempo, inscritte in un rapporto sentimentale con il proprio presente”. Persone che oltre a riscoprire la militanza, come l’hanno riscoperta tanti giovani della Generazione Zeta, si sentono impegnati, “engagè”, attivi nell’elaborare narrazioni e discorsi alternativi sull’evoluzione della specie umana, puntando sulla partecipazione attiva.
Oggi la tecnologia genera “maraviglia[5]” e turbamento. È forza vitale, ma forse anche distruttiva, del capitalismo nella sua attuale fase neoliberista, tecno-informatica e digitale, globalizzante ed estrattivista, un sistema mondo occidentale ed eurocentrico, oggi in grande sofferenza, che è entrato in crisi. Mettendo in crisi anche l’idea di un progresso lineare, frutto di pura illusione, conservatorismo e protezione di un benessere che non può rimanere tale, se circoscritto a una parte limitata del mondo. Senza lo sviluppo accelerato della tecnologia nelle sue varie forme (nanotecnologie, intelligenza artificiale, realtà virtuali, dispositivi, Cloud e Big Data) non ci sarebbe stata la globalizzazione nelle forme che conosciamo, oggi messe in discussione dagli effetti asimmetrici che ha generato, in primo luogo quelli economici, geopolitici e militari. La tecnologia ha contribuito in modo determinante a dare potere a pochi togliendolo a molti, spesso privi di ogni consapevolezza del sistema (l’acqua di Foster Wallace) nel quale si trovano imprigionati, creando privilegi storicamente mai visti prima e disuguaglianze sempre più profonde, crudeli, meritocratiche e darwiniste.
Per come si è evoluta, Internet è diventata strumento potente di livellamento verso il basso, di dispersione di energie sociali, di trasformazione dei media in veicoli uniformanti di consenso, guida e orientamento. L’isolamento nel quale molte persone si sono trovate ha ingenerato forme di particolarismo e settarismo, di pensieri conservatori e razzisti, di complottismi vari. In una società destinata al collasso, l’intera esistenza umana è stata trasformata in una serie di rapporti commerciali e utilitaristici, che hanno reso impossibile ogni rivoluzione reale (sul tema Byung-Chul Han ha scritto un libro ricco di spunti di riflessione sul dominio e sul potere, per chi non è ancora sottomesso o è cosciente di esserlo).
La tecnologia gioca un ruolo fondamentale nelle tecniche del potere neoliberista attuale: ogni sua evoluzione segue logiche di potere legate a interessi economici, finanziari e politici che ridefiniscono concetti (plusvalore, produttività, evoluzione, progresso, scienza), strumenti (algoritmi, IA, reti neurali, dispositivi), ambiti (mercato, scuola, sanità, democrazia) e dimensioni esistenziali (lavoro, educazione, socialità, ecc.).
Crescono le disuguaglianze, continua ad aumentare il malessere e il senso di disagio ma moltitudini di persone, alla ribellione, sembrano preferire una sottomissione complice, rassegnata e volontaria. Sembra di trovarsi in una delle fasi cicliche con cui Erich Fromm leggeva la storia umana come alternanza di periodi nei quali prevale il bisogno di libertà ad altri nei quali si preferisce la sottomissione. In questa fase di moltitudini massificate dalle piattaforme tecnologiche e dall’iperconsumismo la sottomissione è espressione di
“uomini che si sentono liberi e indipendenti, che non si assoggettano ad alcuna autorità e tuttavia sono desiderosi di essere comandati, di fare ciò che ci si aspetta da loro, di adattarsi alla moderna macchina priva di frizione, che possono essere guidati senza la forza, incitati senza uno scopo, tranne quello di rendere, di essere sulla breccia, di funzionare, di andare avanti[6]”.
Il potere senza più un centro si è fatto intelligente, preferisce sedurre piuttosto che imprigionare, coltiva la sua invisibilità lasciando credere al soggetto sottomesso di essere libero, auto-sfruttato ma imprenditore di sé stesso, (de)privato di motivazioni forti per una protesta collaborativa e globale che si faccia politica e rivoluzionaria. Quando una protesta collettiva si manifesta e moltitudini di persone superano il loro isolamento organizzandosi alla ricerca di un cambiamento, a vanificare ogni sua aspirazione e speranza di successo interviene la mediatizzazione, che la sterilizza e la congela, sommergendola dentro uno storytelling finalizzato alla sua lenta estinzione nel tempo come semplice fenomeno di malcontento. Ne è testimonianza eclatante la serie infinita di rivolte e ribellioni che, dai Gilet Gialli in avanti, stanno caratterizzando la vita sociale della Francia e che non hanno portato a nulla, se non alla percezione che si è liberi di protestare, dimostrare e sfilare in corteo nel centro di Parigi, così come di è liberi di farlo sulle piattaforme social online, ma non di aspirare a realizzare un’alternativa reale capace di incidere sulla vita personale e su quella degli altri, soddisfacendo bisogni reali. Altra testimonianza è l’impossibilità di una protesta globale (si pensi al movimento No Global di fine Novecento, alle Primavere Arabe, Occupy Wall Street negi USA, gli Indignados e Podemos on Spagna, Siryza in Grecia, Comitati Invisibili, le proteste a Santiago del Cile che hanno portato alla revisione della costituzione cilena, ecc.) capace di estendersi in tutto il mondo come aveva fatto quella che negli anni Sessanta e Settanta aveva coinvolto moltitudini di persone interconnesse da un comune sentire, dall’emergere di una coscienza collettiva, da una grande immaginazione (“siamo realisti, vogliamo l’impossibile”) e dalla volontà di cambiare. Il fallimento di questi movimenti attuali non è alieno al malessere diffuso in molte realtà del mondo. Ha generato insoddisfazione e amarezza, ha spinto molti a distaccarsi dalla politica e dalla cittadinanza, ad accettare passivamente e senza più capacità di opporsi le gerarchie di potere esistenti, a perdere il coraggio che serve per opporsi.
Uno degli effetti principali, per usare le parole di Eric Sadin, “[…] è una insoddisfazione che assume prima di tutto una forma verbale, capace soltanto di rimuginare e di non produrre niente, o peggio ancora, di tendere al conformismo, nella misura in cui si accontenta di mettere in luce i difetti, senza alcuna forma di impegno reale[7]”.
Il conformismo, che oggi richiama sempre di più un’orda stupida di lemming ciechi e suicidi, opera come un pericoloso paraocchi cognitivo, è frutto di passivo adeguamento e stolto appiattimento a quello che pensa e vuole la maggioranza, il clan, la tribù o la setta, evidenzia la tendenza a non avere un proprio giudizio e a divenire succubi di una opinione pubblica oggi identificabile con quella che si manifesta dentro le piattaforme social e che sembra portare, per usare una terminologia di Gillo Flores, alla morte della capacità cogitativa individuale. Da cui consegue un altro tipo di conformismo, quello associabile all’assenza di rivolta contro il conformismo del senso comune.
La pervasività dell’intelligenza artificiale sta oggi creando nuove gerarchie di potere che, coniugandosi con quelle finanziarie, politiche e militari, stanno determinando la nascita di veri e propri poteri occulti. Il loro tecno-dominio è consolidato dal sostegno di miliardi di elettori-consumatori solipsisti la cui mente è stata plasmata da media digitali che condizionano comportamenti, scelte e decisioni. Anziché mettere in discussione i loro pregiudizi e cornici mentali non fanno che confermarli, dentro i recinti chiusi di piattaforme-apparato che nulla hanno da spartire con i tanti spazi pubblici esistenti al loro esterno.
La tecnologia ha cambiato la politica di molti paesi, le agende politiche dei loro governanti e la logica dei loro interventi, l’organizzazione dei mezzi necessari al raggiungimento di obiettivi sempre meno strategici ma funzionali e commerciali. Il cambiamento ha visto emergere pulsioni e visioni tecnocratiche finalizzate alla aziendalizzazione del welfare sociale, alla sparizione dei diritti, alla privatizzazione di istituzioni pubbliche come la sanità e l’istruzione, all’incapacità nel definire politiche verdi e a forme di populismo che devono la loro forza ai mezzi tecnologici utilizzati. I molteplici effetti prodotti ci obbligano tutti a riflettere sulla loro profondità e sul loro significato, sulle implicazioni per la condizione umana nell’era tecnologica attuale.
L’evoluzione della tecnologia richiede oggi una crescente automazione dell’umano, la sua persistente mercificazione e sottomissione. L’efficacia e la determinazione con cui la tecnologia persegue questo obiettivo pongono agli umani molteplici interrogativi, necessari per andare alla ricerca di risposte su come proteggere l’umano e le sue prerogative facendo sì che l’umano sia sempre più umano. Interrogarsi è diventato tanto più essenziale quanto più la tecnologia si è fatta mondo, si è resa autonoma, rifuggendo da domande di senso e da regole che la richiamino a confrontarsi con la complessità, a principi o finalità superiori, umani. Non serve una fuga dalla tecnologia, né il ritorno a ere pretecnologiche.
La sfida consiste nel trovare nuove forme di agire, anche interagendo con strumenti tecnologici, per tenere viva l’immaginazione e la visione di scenari futuri tecnologici possibili, nei quali non tutto è razionalmente e algoritmicamente preordinato o computabile, tenendo presente che la vita è multidimensionale per definizione, complessa, mai riducibile a un’unica dimensione.
Perché un nuovo libro
Questo libro, il ventiduesimo da me scritto, sempre pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital, è il punto di arrivo momentaneo di un viaggio iniziato tanto tempo fa. Un percorso lungo di riflessione critica, diventato consapevole agli inizi degli Anni Duemila quando lavoravo per una multinazionale americana, azienda leader nel mercato della tecnologia, con responsabilità manageriali internazionali. Una riflessione fatta di percezioni, sensazioni e conoscenze condivise che suggeriscono di resistere alla falsa narrazione di una realtà raccontata come inalterabile e falsamente progressiva, per evidenziarne le ricadute e gli effetti negativi sulla vita delle persone, provando a suggerire forme di resistenza e di rifiuto. La riflessione ha avuto bisogno di una lunga incubazione, tante esperienze sul campo (hands on), insistenti letture alternative e tanta curiosità.
Tutto ha avuto inizio con una presentazione (It's all coming together - Culture changes and technology[8]) fatta a un seminario per grandi aziende europee, tenutosi a Saint-Paul-de-Vence, in Provenza, nel 2001, subito dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle di New York, che ha chiuso in modo drammatico il Ventesimo Secolo. Un intervento focalizzato sugli effetti culturali della tecnologia, sulle sue narrazioni e tecno-utopie, nel quale avevo raccontato di quanto fossimo ibridati con la tecnologia, condizionati dai confort e affascinati dai numerosi gadget da essa distribuiti, innamorati e sedotti dalle sue promesse e continue gratificazioni, fino a essere diventati dei “drogati”, uomini cablati, tutti intossicati dalle numerose droghe da essa elargite. Tanti elementi di realtà percepita, usati per elaborare una riflessione originale e non conformista, per suggerire una riflessione critica collettiva sui cambiamenti in atto (sarà vero che come ha scritto Houellebecq”quando avvengono grandi cambiamenti sociali nessuno può farci nulla”?), determinati dal progresso tecnologico che ha trasformato il mondo in una piattaforma di videogiochi, per evidenziare il rischio della perdita di controllo e far riflettere sul nostro umano dare tutto per scontato, disimparando a interrogarci esistenzialmente ponendoci delle domande. Già allora per me ciò che contava non era tanto l’essere favorevoli o contrari alla tecnologia, quanto piuttosto la capacità di sviluppare un punto di vista critico nei confronti dell’etica digitale e della virtualizzazione della realtà, con l’obiettivo di salvaguardare i valori umani fondamentali che declinavo in libertà, solidarietà, cooperazione, creatività e democrazia.
Il messaggio implicito della mia presentazione, forse a quel tempo ancora inconsapevole e comunicato con parole inadeguate, era a prendere coscienza degli effetti collaterali della tecnologia sulle nostre pratiche esperienziali, sul nostro modo di pensare, di interagire con la realtà, con gli altri e con il mondo. La presa di coscienza suggerita nasceva dalla percezione di quanto fossimo stati abbagliati dalla tecnologia e da quelle che si pensavano sarebbero state le sue rivoluzioni. Fonte di ispirazione di quella presentazione fu il libro di John Naisbitt, High Tech High Touch (1999), nel quale il visionario autore descriveva la società del tempo come definita dal rapporto complicato, spesso paradossale, tra la tecnologia e la nostra ricerca di un significato esistenziale. Un rapporto malato, evidenziato da alcuni sintomi quali la ricerca di soluzioni belle che pronte in tutti i campi e tutte le discipline umane, il timore reverenziale diffuso verso la tecnologia, la difficoltà crescente a distinguere tra originale e imitazione, l’accettazione della violenza, oggi anche della guerra, come fatto naturale, l’amore per la tecnologia come se fosse un semplice giocattolo e il vivere la vita in modo distratto e distante[9], in qualche modo artificiale, macchinico[10].
Da allora tutto è cambiato, si è accelerato obbligandoci a prendere atto che la tecnologia avanza più rapidamente della nostra capacità o coscienza nel padroneggiarla a vantaggio dell’umano. La tecnologia ci ha inebriato, lasciato in apnea, senza fiato, bisognosi di bombole d’ossigeno di profondità. I cambiamenti da essa generati hanno conseguenze profonde, non sempre progressive. Ha anche tradito la promessa di favorire lo sviluppo di una società più aperta e democratica, più libera, consapevole e informata. L’accelerazione tecnologica non è avvenuta a vantaggio dei più. Ha portato a una concentrazione di potere e di ricchezza mai vista prima nel sistema capitalistico dominante attuale, pavimentando le strade a populismi e complottismi vari, favorendo condizionamenti sociali subdoli e pericolosi. Ha portato a forme di controllo e sorveglianza che obbligano a ripensare il Panottico di Jeremy Bentham, a riscrivere il Leviatano di Hobbes e a considerare obsoleti i libri di Foucault. La trasformazione più profonda e pericolosa è avvenuta dentro le nostre menti e nell’evoluzione delle nostre mentalità.
Quella a cui stiamo assistendo è una mutazione reale (non chiamiamola darwiniana) destinata a trasformare i nostri desideri, ha già cambiato profondamente i nostri stili di vita e le nostre idee. L’impatto del digitale e della virtualità, della connessione e dell’online sulla mente umana sta cambiando tutto: il modo di apprendere, di leggere, di scrivere (la calligrafia è stata suicidata) e socializzare, di vivere la vita privata e quella professionale, di fare politica e praticare la guerra. La tecnologia, diventata protesi che vuole perfezionare l’uomo, ci ha ibridato incidendo sui nostri processi cerebrali e cognitivi di adattamento, ha imposto il suo lessico utile al passaggio dall’umano al postumano, forse al transumano. Con la sua volontà di potenza ha cambiato il mondo e le nostre esistenze, il nostro modo di comunicare, di relazionarci, di essere e di esistere. Ci ha obbligato a spostare il baricentro della riflessione dall’umano all’intreccio che lega corpi, mente, ambiente e cose alla tecnologia. La nostra vita si è trasferita sempre più online (onlife direbbe l’influencer filosofo pop di turno), dentro piattaforme che hanno catturato la nostra attenzione, cambiato il nostro linguaggio e il nostro conversare, imprigionato il nostro tempo, determinando le nostre scelte, molti dei nostri comportamenti, stili di vita e modi di pensare.
Gli effetti della pervasività della tecnologia nel mondo reale sono ben visibili a tutti coloro che hanno occhi per vedere e coscienza per rifletere, in particolare a coloro che hanno strumenti cognitivi e intellettuali adeguati a una comprensione critica della realtà e a quanti percepiscono di vivere (“non è altro che avere tempo”) dentro tempi di crisi e cambiamenti trasformativi profondi, anche a causa della tecnologia digitale, della sua forza impositiva e di accelerazione che sta trasformando il mondo. Globalizzata, interconnessa e tecnologicamente avanzata, la nostra società vive di un surplus informativo fatto di informazione memorizzata, archiviata, morta. Si muove dentro schemi e meccanismi che rendono difficile stabilirne il valore d’uso, alimenta una retorica seduttiva ma improduttiva, subordinata a loop di mercato, a interessi commerciali, al marketing, alla comunicazione e alla pubblicità, la cui validità è legata al numero di visualizzazioni o di MiPiace raccolti online.
La società si è impoverita intellettualmente, producendo effetti che sollecitano una riflessione fuori dagli schemi, basata sul dubbio e sulla curiosità, alla ricerca delle connessioni invisibili che legano le cose del mondo, adottando una visione olistica. In un periodo nel quale le crisi si susseguono, crescono le disuguaglianze e aumenta la precarietà del lavoro, la riflessione critica potrebbe aiutare a smitizzare il ruolo avuto dalla tecnologia del digitale nel creare nuovo sviluppo economico. Rispetto a rivoluzioni tecnologiche precedenti (la stampa con i caratteri mobili, la macchina a vapore, l’elettricità, ecc.) la tecnologia dell’informazione ha solo reso più efficienti filiere, processi e industrie esistenti, senza dare vita a nuovi settori produttivi[11]. Ha raggiunto un potere globale indiscusso, catturando l’immaginazione umana e la cultura contemporanea, fornendo gli strumenti necessari alla spinta espansionistica di merci e capitali nel mondo, nella fase attuale di capitalismo globalizzato.
La tecnologia che ci aiuta a risolvere problemi offrendoci le sue soluzioni è diventata strumento interpretativo, ci racconta cosa stia cambiando e cosa siamo diventati, ci sfida su nuovi terreni di conoscenza. Una sfida da raccogliere per diventare più umani grazie a nuove conoscenze e alla nostra capacità umana di scalare l’albero della conoscenza. Senza accorgercene siamo tutti entrati in quella che l’artista e teorico James Bridle chiama l’era oscura[12], una nuova era tecnologica con più ombre che luci della quale non bisogna avere paura, da studiare in modo da comprenderla meglio, senza limitarsi al come funziona e a quali soluzioni offra. La comprensione passa attraverso un’opera di alfabetizzazione utile a svelarne il contesto e il suo appartenere a quello che il filosofo Benasayag chiama il campo dei misti, super-organismi come la lingua, la scrittura, l’economia, ecc., macro-processi e aggregati dotati di vincoli strutturali sistemici loro propri che aspirano a un tutto, nei quali viviamo ormai come pesci nell’acqua, al servizio dell’umano ma anche capaci di colonizzarlo come oggi sta facendo con successo la tecnologia. Comprendere i meccanismi e i processi di mediazione della tecnologia, i loro effetti sui nostri corpi, comportamenti e pensieri, aiuta a riflettere sui metalinguaggi della tecnologia senza avere timore di elaborare critiche o di reagire alle critiche stesse.
È quello che ho tentato di fare in questo libro, provando a fornire spunti di riflessione, riferimenti intellettuali, storie e metafore, usate per contrastare il pensiero computazionale, funzionale e soluzionistico attuale. Nel tentativo di capire meglio la rottura antropologica determinata dalla virtualizzazione e digitalizzazione della realtà, ho provato ad evidenziare l’urgenza e la necessità di salvaguardare un pensiero critico, capace di articolare il mondo in termini non computabili e al tempo stesso all’altezza di elaborare forme di resistenza al “mostruoso” tentativo di separare l’intelletto e la mente dall’emozione e dal corpo (Bateson). Tenendo sempre presente l’idea della nostra complessità, irriducibilità, come esseri umani incalcolabili, a una macchina (in)discreta e serializzata, e che il saper vivere debba liberarsi dalla determinazione funzionale per adottare il mondo del continuo, il principio generale della vita[13], la sua fluidità, non linearità e plasticità, imparando a convivere con l’alterità della tecnologia, allo stesso modo con cui gli umani lo hanno fatto nel tempo con la lingua e la scrittura.
Nei tempi sospesi che viviamo, la tecnologia, che tutti dicono di conoscere e pochi conoscono veramente, è diventata una terra di nessuno. L’oscurità, che avvolge la rete, il cloud (ormai parte integrante dell’ambiente e causa del suo deterioramento), le piattaforme, l’algoritmo, è evidenziata dalle narrazioni apologetiche e conformistiche che la raccontano, avvolge con l’abbondanza di informazioni la nostra conoscenza, limitandone e condizionandone l’utilizzo nella comprensione del mondo. Evitando ogni forma di tecnofobia e di nichilismo che caratterizzano alcune narrazioni della tecnologia, così come di tecnofilia nella sua manifestazione conformistica attuale che rende sordi al rumore e al negativo, ho cercato in questo libro di fornire strumenti per pensare e pensare diversamente, con argomentazioni che facilitino comprensione, approfondimento e riflessione critica. Pensare la rete e, attraverso di essa, pensare il Cloud aiuta a svelarne la sua materialità e invisibilità, a interpretare i linguaggi e le metafore della tecnologia e del digitale, a svelare la nebulosità di piattaforme e architetture.
Riflettere sulla tecnologia è un modo per meditare sulle tante crisi del nostro tempo, quella ambientale, climatica (global warming) ed ecologica per prime. Ripensare la tecnologia va di pari passo con un ripensamento più generale che interessa le sorti della specie umana sulla terra, focalizzando l’attenzione sugli effetti a noi vicini e su quelli prolungati, che potrebbero portare al collasso della sesta estinzione, cambiando modo di guardare la realtà, liberandoci degli schematismi tecno-economici dentro i quali siamo tutti imprigionati. Il tema del cambiamento climatico, ad esempio, non può essere territorio esclusivo di scienziati e accademici che lo affrontano come campo di conoscenza specialistico. Tutti devono poter intervenire, in particolare agricoltori, pescatori, lavoratori del mare e della foresta che da tempo hanno percepito il cambiamento in atto e da anni stanno già pagandone le conseguenze, in particolare nei paesi meno sviluppati. Vanno ascoltati, coinvolti, rispettati. L’osservazione attenta dell’ambiente può dare indicazioni rilevanti sui cambiamenti di lungo periodo che si stanno affacciando.
Un’osservazione simile dedicata alla tecnologia può servire a comprendere per tempo effetti che possono avere origine da fonti inattese. Osservare la natura e scoprire la sparizione di una sorgente di montagna o di un habitat animale, per diventare consapevoli di una trasformazione in corso, è assimilabile a investigare i tanti mutamenti indotti dalle innovazioni tecnologiche destinate a cambiare la vita degli umani sulla terra, il loro modo di guardare a sé stessi e al mondo. In entrambi i casi l’osservazione deve liberarsi dalle cortine fumogene fatte di numeri, tabelle e grafici con cui la narrazione mediale e istituzionale tende a generare quello che, in ambito ecologico, è stato definito come green-washing. La distanza digitale, che caratterizza le nostre vite correnti e che ci porta ad essere distanti dagli altri, evidenzia anche la nostra lontananza dai temi ecologici, la nostra colpevole inconsapevolezza della distanza che ci separa dalla natura e dai suoi ambienti naturali, la nostra assurda meraviglia nello scoprire i tanti spillover potenziali, ancora presenti, che potrebbero farci ripetere l’esperienza drammatica del Coronavirus.
Tecnologia, ambiente, economia, salute e politica sono tanti ambiti tutti tra loro intrecciati e imparentati
Tecnologia, ambiente, economia, salute e politica sono tanti ambiti tutti tra loro intrecciati e imparentati, anche dagli effetti su di essi generati dalle accelerazioni tecnologiche degli ultimi trent’anni. Un’accelerazione resa possibile dalla modellazione costante della mente moderna per coltivare le sue aspettative di progresso e di crescita continui, di espansione del consumo e di felicità. Le crisi che da questi effetti si stanno generando sottolineano quanto quelle aspettative fossero fallaci, impongono l’urgenza di qualche forma di pentimento, di tornare a pensare, a (auto)riflettere criticamente, a problematizzare il presente, a concentrarsi approfondendo, a cambiare schemi mentali, paradigmi di riferimento e punti di vista. L’urgenza è tanto più grande quanto più migliora la capacità di pensare delle macchine ed evolvono le intelligenze artificiali alle quali molti sembrano oggi avere assegnato il compito di salvare l’umanità e il pianeta (per chi?). Lo è ancora di più se si riflette sui sintomi, rilevati da molti studiosi e percepiti da tanti, di un deperimento della nostra civiltà in termini di indebolimento delle capacità razionali (la pancia e l’impulso binario hanno il sopravvento, nelle decisioni comandano le endorfine, la scelta diventa semplice meccanismo), di intorpidimento della capacità di giudizio, di impoverimento del linguaggio, di scarsa attenzione all’etica, di perdita di conoscenze, sempre più annacquate dentro un surplus informativo deformante e dominante, che non va a beneficio di tutti.
Note
[1] “On January 14th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you will see why 1984 won’t be like “1984”.
[2] “Governments of the Industrial World, you weary giants of flesh and steel, I come from Cyberspace, the new home of Mind. On behalf of the future, I ask you of the past to leave us alone. You are not welcome among us. You have no sovereignty where we gather. We have no elected government, nor are we likely to have one, so I address you with no greater authority than that with which liberty itself always speaks. I declare the global social space we are building to be naturally independent of the tyrannies you seek to impose on us. You have no moral right to rule us nor do you possess any methods of enforcement we have true reason to fear. Governments derive their just powers from the consent of the governed. You have neither solicited nor received ours. We did not invite you. You do not know us, nor do you know our world. Cyberspace does not lie within your borders. Do not think that you can build it, as though it were a public construction project. You cannot. It is an act of nature and it grows itself through our collective actions. You have not engaged in our great and gathering conversation, nor did you create the wealth of our marketplaces. You do not know our culture, our ethics, or the unwritten codes that already provide our society more order than could be obtained by any of your impositions. You claim there are problems among us that you need to solve. You use this claim as an excuse to invade our precincts. Many of these problems don't exist. Where there are real conflicts, where there are wrongs, we will identify them and address them by our means. We are forming our own Social Contract. This governance will arise according to the conditions of our world, not yours. Our world is different. Cyberspace consists of transactions, relationships, and thought itself, arrayed like a standing wave in the web of our communications. Ours is a world that is both everywhere and nowhere, but it is not where bodies live.We are creating a world that all may enter without privilege or prejudice accorded by race, economic power, military force, or station of birth.We are creating a world where anyone, anywhere may express his or her beliefs, no matter how singular, without fear of being coerced into silence or conformity.Your legal concepts of property, expression, identity, movement, and context do not apply to us. They are all based on matter, and there is no matter here. Our identities have no bodies, so, unlike you, we cannot obtain order by physical coercion. We believe that from ethics, enlightened self-interest, and the commonweal, our governance will emerge. Our identities may be distributed across many of your jurisdictions. The only law that all our constituent cultures would generally recognize is the Golden Rule. We hope we will be able to build our particular solutions on that basis. But we cannot accept the solutions you are attempting to impose. In the United States, you have today created a law, the Telecommunications Reform Act, which repudiates your own Constitution and insults the dreams of Jefferson, Washington, Mill, Madison, DeToqueville, and Brandeis. These dreams must now be born anew in us. You are terrified of your own children, since they are natives in a world where you will always be immigrants. Because you fear them, you entrust your bureaucracies with the parental responsibilities you are too cowardly to confront yourselves. In our world, all the sentiments and expressions of humanity, from the debasing to the angelic, are parts of a seamless whole, the global conversation of bits. We cannot separate the air that chokes from the air upon which wings beat. In China, Germany, France, Russia, Singapore, Italy and the United States, you are trying to ward off the virus of liberty by erecting guard posts at the frontiers of Cyberspace. These may keep out the contagion for a small time, but they will not work in a world that will soon be blanketed in bit-bearing media. Your increasingly obsolete information industries would perpetuate themselves by proposing laws, in America and elsewhere, that claim to own speech itself throughout the world. These laws would declare ideas to be another industrial product, no more noble than pig iron. In our world, whatever the human mind may create can be reproduced and distributed infinitely at no cost. The global conveyance of thought no longer requires your factories to accomplish. These increasingly hostile and colonial measures place us in the same position as those previous lovers of freedom and self-determination who had to reject the authorities of distant, uninformed powers. We must declare our virtual selves immune to your sovereignty, even as we continue to consent to your rule over our bodies. We will spread ourselves across the Planet so that no one can arrest our thoughts. We will create a civilization of the Mind in Cyberspace. May it be more human and fair than the world your governments have made before.” - Davos, Switzerland - February 8, 1996
[3] Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano 2023, Pag. 22-23
[4] Da una intervista di Michela Murgia con Loredana Lipperini, conduttrice della celebre trasmissione pomeridiana Fahrenheit trasmessa su RAI3
[5] "Cosa mirabile, eccezionale, inattesa, che desta in chi la guarda o la ode un senso di stupore, sconfinante a volte nell'incredulità” - Treccani
[6] E.Fromm, L’arte d’amare, Mondadori, Milano, 1968, pag.109
[7] Éric Sadin, Secessione, LUISS, Milano 2023, pag. 63
[8] La presentazione è disponibile a tutti su Slideshare
[9] High Tech High Touch di John Naisbitt, della edizione italiana Franco Angeli Milano 2000, pag. 12
[10] Il termine ha origine nel 1972 quando Gilles Deleuze e Felix Guattari inaugurarono la loro “ontologia macchinica”, usata per descrivere una società sempre più tecnologica nella quale le macchine, uscite dalle fabbriche, hanno invaso le strade, “innervato” e automatizzato la società.
[11] Il tema è stato ben descritto da Franco Bernabè e Massimo Gaggi nel loro libro del 2023: Profeti, Oligarchi e Spie
[12] James Bridle, Nuova era oscura, Edizioni Nero, Roma 2019
[13] Due concetti derivati dalla lettura del libro Cosmotecnica di Yuk Hui, Edizioni Nero, Roma 2021, pag. 93