TESTI[1093]
Il culto dell’incompetenza artificiale. Ovvero: perché paghiamo per strumenti che ci fanno lavorare di più.
A volte il pensiero critico non serve a distinguere il vero dal falso, ma il lecito dal dicibile. In certe aziende — come in certi tempi — si misura la fedeltà di un dipendente non dal lavoro che fa, ma da ciò che evita di pensare. Mi è capitato, anni fa, di firmare un contratto che vietava di scrivere articoli sull’open source. Un modo elegante per ricordarmi che la libertà di pensiero è sempre proprietaria. Da allora ho imparato a riconoscere la stessa logica ovunque: nelle piattaforme che ti chiedono di “ottimizzare il tempo”, negli algoritmi che pretendono di “aiutarti a pensare”. Questo saggio nasce da lì — da quella piccola amputazione volontaria — e dall’intuizione che l’intelligenza artificiale, oggi, ripropone su scala planetaria lo stesso meccanismo: ti offre libertà solo se resti dentro la sua gabbia semantica.