Mi sono stancato dell’obbligo di lucidare ogni parola, ogni gesto, ogni dettaglio — come se valesse più l’aspetto che il contenuto. È faticoso dover sembrare sempre all’altezza, per non essere scartati come quella mela un po’ opaca che nessuno sceglie al supermercato. Il fatto è che molti, quella mela, non saprebbero nemmeno riconoscerla per ciò che è. Non sono mai stati sotto un melo, un pero, un ciliegio. Non conoscono l’odore della terra vera, né la differenza tra ciò che cresce e ciò che semplicemente luccica, ma è marcio dentro. Scrivo perché preferisco la sostanza al decoro, l’osservazione al compiacimento. Ho lavorato nei sistemi, con i sistemi, a volte contro. Ufficiale dell’Aeronautica in gioventù, poi project manager, poi consulente indipendente: ho imparato a navigare la complessità senza doverla vendere. Su Stultifera Navis cerco uno spazio dove il pensiero possa mostrarsi nudo, senza scenografie. Non ho verità da difendere, né modelli da proporre. Solo l’urgenza di mettere in fila ciò che, per me, merita ancora di essere detto.
L'Illusione della giovinezza eterna
In questo nostro peregrinare attraverso le tortuosità del tempo digitale e le ambiguità del valore umano nel mercato del lavoro, forse non sarà inutile volgere lo sguardo a quelle voci che, attraverso i secoli, hanno saputo offrire un faro di lucidità e di serena fermezza. Tra queste, risplende con particolare intensità l'eco dei pensieri di Marco Aurelio Antonino, imperatore romano e filosofo stoico, raccolti nella sua opera immortale, "Le Meditazioni". Questo testo, lungi dall'essere un trattato sistematico, si presenta come un intimo dialogo che tocca le corde profonde dell'esistenza: la natura effimera delle cose terrene, l'importanza ineludibile della virtù come unico vero bene, la necessità di accettare con distacco ciò che non dipende dal nostro volere, e la preminenza della ragione come guida nel labirinto delle passioni e delle avversità.
Lavorare oggi: tra tecnica, distanza e comunità. Come il lavoro cambia nell’epoca dell’ibrido.
Una soglia da attraversare Oggi la linea tra vita e lavoro, tra tempo libero e tempo produttivo, è più sfumata che mai. Ma forse proprio questa incertezza può diventare un’opportunità. Ripensare il lavoro non come obbligo, ma come possibilità di fare qualcosa insieme che abbia senso. Un lavoro umano, non solo utile. Che cos’è oggi il lavoro? Dove avviene, con chi, attraverso quali strumenti? Sono domande che non possiamo più dare per scontate. Fino a pochi anni fa, il lavoro era associato a un luogo fisico – l’ufficio, la fabbrica, il negozio – e a un tempo preciso, scandito da orari e presenze. Oggi, tutto questo si è fatto più incerto. Il lavoro “ibrido”, cioè a metà tra presenza e distanza, è diventato la norma per molti. Ma cosa comporta davvero?
Virtute siderum tenus
Guardare le stelle non è solo un atto contemplativo. È un gesto di ricerca, una domanda silenziosa rivolta al cosmo e, al tempo stesso, a noi stessi.
Guerre di Dio. Una critica radicale al sacro che uccide (e al potere che esclude)
Nel cuore delle tre grandi religioni monoteiste — Ebraismo, Cristianesimo e Islam — la guerra non è soltanto un fenomeno storico o sociopolitico: è, non di rado, un fatto sacro. Un’azione che può essere comandata, giustificata, talvolta persino santificata da Dio. I testi fondativi — dalla Bibbia all’Ebraismo rabbinico, dal Nuovo Testamento alla teologia cristiana, dal Corano alla Sunna — narrano guerre combattute “in nome di Dio”, per la difesa della fede, l’obbedienza alla Legge, o la conquista di una terra promessa. Non guerre umane, dunque, ma guerre autorizzate, se non addirittura volute dal divino. E qui si apre una questione etica e politica di portata immane: che immagine di Dio ci consegnano queste guerre sacralizzate? Che Dio è un Dio che fa la guerra?
Architetture viventi: una prospettiva neurocibernetica sui microservizi e la complessità digitale
Questo studio esplora l'analogia tra i sistemi biologici, in particolare il cervello umano, e le architetture software moderne basate su microservizi. Attraverso un'analisi interdisciplinare che integra neurobiologia, cibernetica e ingegneria del software, si evidenzia come principi quali la modularità, la plasticità e l'omeostasi siano comuni a entrambi i domini. L'articolo propone una prospettiva innovativa per comprendere e progettare sistemi complessi, suggerendo che l'adozione di paradigmi ispirati alla biologia possa migliorare la resilienza e l'adattabilità delle architetture software.
Neuroscienze del dissenso: verso una gestione cognitiva dei conflitti nei progetti complessi
Il conflitto, nei progetti, non è un’eccezione. È la norma. Non tanto nella forma esplosiva della lite, quanto nell’attrito silenzioso delle incomprensioni, nella frizione tra priorità divergenti, nei fraintendimenti tra ruoli e aspettative. Ogni progetto è un terreno attraversato da tensioni – culturali, emotive, cognitive – che si manifestano a più livelli: tra stakeholder, all’interno del team, nel rapporto con i clienti. Non è un male, ma un dato strutturale. La vera questione, allora, è come affrontare il dissenso in modo intelligente.
La lezione del tram. L'intelligenza umana nell'era dell'automazione assistita
A volte succede: su un tram qualunque, in coda all'ufficio postale, nel margine d'attesa che separa un impegno dal successivo, avvengono incontri che nessun algoritmo saprebbe orchestrare. Persone reali, lontane dai riflettori digitali e dal narcisismo da guru su LinkedIn, condividono pensieri non richiesti, osservazioni sgrammaticate ma autentiche, frammenti di vissuto capaci di smontare certezze. Non si tratta di conversazioni memorabili per stile o profondità, ma per la loro capacità di introdurre un dubbio fertile, un cambio di prospettiva. A ben vedere, è da queste crepe nel quotidiano che filtra la luce dell'apprendimento più umano: non riproducibile, non scalabile, ma trasformativo.
Pagina di diario — 18 maggio
La mente, per sua natura, tende al vagabondaggio. Oscilla tra l’ansia per ciò che potrebbe accadere e il rimpianto per ciò che è stato. Questo flusso continuo, se non riconosciuto, alimenta uno stato latente di stress, talvolta persino di alienazione. Praticare la mindfulness significa spezzare questo incantesimo: riportare dolcemente l’attenzione al momento presente, al respiro, a un suono, a una sensazione corporea. Una forma di vigilanza affettuosa, che non corregge, ma accoglie.
15 maggio. Il dovere di pesare le parole
Stamattina ho riaperto un libro digitale che avevo sfiorato giorni fa. Il titolo ancora mi parlava — Ipnocrazia. Un concetto affascinante, evocativo, carico di risonanze contemporanee. Rappresentava, in un certo senso, una sintesi delle mie inquietudini. L’avevo acquistato d’impulso, attratto dalla promessa di una riflessione sul potere ipnotico dell’informazione. In parte ci avevo creduto. In parte avevo voluto crederci. Mi sono accorto, però, che il problema non era il libro in sé, né il fatto che l’autore si sia rivelato una finzione, un’invenzione editoriale costruita tra intelligenze umane e artificiali. Il vero problema è che non mi ero fermato. Non avevo interrogato fino in fondo la fonte. Avevo lasciato che la plausibilità del testo, la sua coerenza stilistica, la sua forma accurata mi bastassero.
Confini e contraddizioni: pensare e progettare nei sistemi complessi
Oltre l’ideologia dell’ordine. Nel mondo del business contemporaneo, la ricerca ossessiva di ordine, efficienza e replicabilità sta progressivamente minando la capacità delle organizzazioni di abitare la complessità. Ci siamo abituati a pensare che ogni problema abbia una soluzione standardizzata, preferibilmente scalabile, immediata, e accompagnata da un framework certificato. Tuttavia, è proprio nei momenti di transizione e trasformazione che i modelli prefabbricati mostrano i loro limiti. In questo scenario, concetti come "confine", "contesto" e "paradosso" diventano chiavi di lettura imprescindibili per chi vuole progettare, decidere e guidare con consapevolezza.
Dalla relazione alla qualità: comunicare il cambiamento come progetto
Eraclito scrive: «Nel medesimo fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo»¹. La frase, apparentemente paradossale, offre una delle descrizioni più asciutte e radicali del reale: ogni cosa è attraversata dal mutamento, eppure questo mutamento non è disordine. È forma in divenire, una dinamica interna che segue un principio, un logos. Non siamo di fronte all’entropia, ma a un ordine che si esprime nel fluire.
Fare bene le cose. Tra chiarezza operativa e profondità interiore
Mi sono svegliato con una domanda che si è fatta largo, ostinata, nella quiete della mente. Cosa significa davvero fare bene le cose? Non si tratta soltanto di “impegnarsi” o di “mettercela tutta”. Queste sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. Fare bene è un’altra cosa. È una disposizione, un metodo, una forma mentale. E, soprattutto, una responsabilità.
L’identità come spazio dinamico: corpo, abitudine e coscienza incarnata
L’identità non è una statua di marmo. È piuttosto una corda tesa tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare, un sentiero che si costruisce camminando, una struttura aperta che si riadatta alle sollecitazioni dell’ambiente, alle ferite e alle scoperte interiori. Parlare di identità, oggi, significa resistere sia alla rigidità dei ruoli, sia al dissolversi liquido delle appartenenze. Significa riconoscere che siamo, simultaneamente, continuità e trasformazione.
Mutevolezza e potenza: il cambiamento come forma dell’essere
Viviamo immersi in una cultura che ha elevato la coerenza narrativa e la continuità logica a criteri supremi dell’identità, come se la stabilità fosse l’unico volto dell’autenticità. Eppure, la condizione umana, nella sua profondità ontologica, eccede questi confini artificiali. Ogni esistenza, se interrogata con sguardo fenomenologico, si rivela intessuta di fratture, discontinuità e metamorfosi — non come anomalie da correggere, ma come frammenti essenziali del suo disegno. Il cambiamento non contraddice l’identità: ne costituisce la premessa e la possibilità originaria.
Creatività come comportamento sociale: oltre il mito del genio
L’idea di creatività è stata, nei secoli, progressivamente sequestrata da una mitologia individualista, che l’ha resa sinonimo di eccezionalità. Si è parlato, a lungo, del genio come di un essere eletto, solitario, dotato di facoltà misteriose, capace di operare l’impossibile al di là di ogni contingenza sociale. Questa figura, nutrita dal romanticismo e dall’estetica borghese, ha costruito attorno all’atto creativo un’aura di sacralità inaccessibile, alimentando una narrazione tossica e disabilitante: quella secondo cui “non tutti possono creare”.
Arte come improvvisazione: il gesto che emerge dal presente
Parlare dell’arte, si sa, è pericoloso. Non solo perché ci si avventura in una selva semantica dove ogni parola è già usata, abusata, svuotata, risignificata e poi ancora capovolta; ma anche perché chi ne parla troppo, spesso non crea nulla. Eppure, ci ostiniamo a voler dire cosa sia l’arte, come se una tale entità — sfuggente, meticcia, proteiforme — potesse davvero essere contenuta in un lemma o, peggio ancora, in un saggio. Tuttavia, anziché inseguire una definizione essenziale, come farebbe un metafisico neoplatonico, si potrebbe tentare un approccio più fenomenologico: non chiedersi cos’è l’arte, ma come si manifesta, cosa fa, a quali logiche risponde quando agisce nel mondo.
La generatività creativa: lasciare frutti, non solo tracce
Ci sono cose che si fanno per vanità, altre per necessità. Ci sono opere che si scrivono per il desiderio di lasciare un segno, e altre che si scrivono perché non si può fare altrimenti. La differenza, che sembra sottile, è invece abissale. Il primo caso produce tracce — spesso effimere, decorative, ripetitive. Il secondo genera frutti — duraturi, nutritivi, talvolta scomodi, ma necessari. Così è anche la creatività: può restare un gioco ornamentale o farsi atto generativo.
L’urgenza della creatività: educare al possibile, abitare il futuro
Questo ultimo articolo della serie si presenta in forma di dialogo, come esercizio di pensiero incarnato nel confronto tra due voci. F. è Fulgenzio, figura sapienziale e ricercatore del senso, voce narrativa che ha attraversato l’intero saggio. Non è un maestro dogmatico, ma un uomo che pensa camminando, dubitando, formulando ipotesi che restano aperte. G. è una giovane interlocutrice — studentessa, figlia, lettrice e coscienza inquieta — che pone domande essenziali, disarmate e attuali. La sua voce è quella di chi cerca un orientamento in un mondo che sembra non lasciare spazio alla possibilità di creare. Il dialogo si svolge in un luogo non definito — forse un’aula vuota, o una casa di campagna nel pomeriggio, un paesaggio mentale. Ma ciò che si dice in queste righe potrebbe dirsi ovunque ci sia ancora qualcuno disposto ad ascoltare davvero.
Dalla sinapsi alla roadmap: progettare e documentare in ambienti complessi
Perché serve pensare prima di pianificare Questo testo si rivolge a chi guida progetti in ambienti tecnologicamente avanzati e organizzativamente complessi: chief technology officer, portfolio e project manager, responsabili dell’innovazione, architetti del software, team lead. A coloro che non cercano solo strumenti, ma modi di pensare e strutturare il lavoro in maniera più intelligente, sostenibile, orientata al valore. In contesti dove il cambiamento è continuo e le risorse limitate, progettare significa prima di tutto mettere ordine nei significati. Temi come la documentazione, l’architettura modulare e la roadmap non sono semplici strumenti tecnici, ma dispositivi che rendono leggibili e negoziabili le intenzioni. Se affrontati con consapevolezza, diventano leve strategiche per generare coerenza, responsabilità e orientamento tra chi decide, chi costruisce e chi verifica.
La conoscenza che cura: architettura informativa come etica relazionale
Nel pensiero di Niklas Luhmann, il concetto di autopoiesi — mutuato dalla biologia di Maturana e Varela — descrive la capacità di un sistema di produrre e riprodurre autonomamente i propri elementi, mantenendo la propria identità operativa. Applicato ai sistemi cognitivi, questo implica che ogni atto di conoscenza non è ricezione passiva di dati, ma generazione interna di senso. Un’organizzazione, dunque, non “immagazzina informazioni”: le seleziona, le codifica, le interpreta secondo le proprie strutture. Questo spiega perché due contesti possano reagire in modo radicalmente diverso allo stesso stimolo informativo. L’autopoiesi, così intesa, restituisce dignità e complessità alla gestione della conoscenza: non un flusso neutro, ma un processo selettivo, situato e riflessivo. Costruire ambienti informativi significa allora rendere visibile e coltivabile questa capacità generativa.